Folla di Tebani, guerrieri. Il luogo: l'acropoli di Tebe.
Folla di anziani e di ragazzi. In mezzo, spicca Eteocle.
Uomini di Cadmo! Dire pronti rimedi, via via: è dovere, per chi è attento, fedele ai suoi impegni di Stato. Dal ponte pilota il paese, manovra la barra. Ciglia immote, inquiete. Senza riposo.
Certo, se la fine è benigna, un Celeste è radice. Altrimenti - no, non deve accadere! - se il destino rovina, un nome, uno solo rimbomba ossessivo per piazze e per strade, risacca stridula d'urli, fra note gementi, a imprecare: «Eteocle!» O Zeus che storni, concreta il tuo nome, fa' scudo alla gente di Cadmo! A voi. Al vostro dovere immediato.
Ognuno - chi ancora non tocca l'età del rigoglio maturo, chi la vita ha sfiorito, chiunque è nel fiore del tempo - s'accumuli dentro vivo gemmare di forze, ciascuno a misura di sé: a voi presidiare lo Stato, gli altari dei nostri dèi del paese. Oh, non sia spenta mai la loro religione! Poi i figli, la Terra materna: ci ha nutrito, l'abbiamo nel sangue! Lei si faceva appoggio amoroso al vostro arrancare di bimbi, lei salutava con gioia sacrifici, fatiche per crescervi. V'ha fatto uomini, braccia buone allo scudo, da fidarsi, quando l'ora critica giunga.
Oggi è giunta. Ecco, fino ad oggi il dio s'è librato propizio dalla parte di Tebe. È vero: un periodo, finora, di ferreo blocco per noi, ma intanto, quante battaglie risolte in successo! Dio ci aiutava.
Ora è diverso. L'annuncia il veggente: lui, mandriano d'alati. Non gli serve la fiamma. Con l'udito, coi sensi del cuore scruta in volo gli indizi rivelatori.
Scienza sincera, la sua. Lui, che di tali pronostici è saldo maestro, rivela: «Assemblea notturna d'Achei; si parla d'offensiva durissima; scatterà con l'agguato». Quindi forza, volate in massa ai bastioni, ai varchi del baluardo. Via, corazzati di ferro. Gremite, lassù, i parapetti. Radicatevi ai corridoi delle torri. Coraggio, immoti davanti alle uscite, agli sfoghi di Tebe. Niente tremori alla densa folata del nemico che viene. Frutterà bene dal cielo.
Io feci uscire le scolte, a scrutare l'armata, là fuori. Missione non cieca, punto tutto su loro. Dopo il rapporto, non c'è rischio che m'avvolga l'agguato. La folla sciama alle mura, ai posti di combattimento. Irrompe uno della scolta.
Eteocle, principe di Tebe! Eccomi. Porto fresche notizie di là, dal nemico. Pura realtà. Io, non altri, ho visto spiando.
Sono sette. Uomini capi d'armata. Vibrano, tesi.
Dissanguano un toro, sopra un incavo cupo di scudo. Tuffano il pugno nella pozza di morte. Ecco - su Guerra, su Eccidio, su Panico ghiotto di sangue - giurano fermi: o fare di Tebe macerie contorte, brutale razzia sul paese di Cadmo; o cadere, cementare col sangue questo suolo di Tebe. Ciascuno sceglieva la propria reliquia: ghirlanda al carro d'Adrasto, per i vecchi, laggiù tra le mura di casa. Pianto spioveva: non gemiti, oltre le labbra.
Sì , cuori d'acciaio e da essi folate roventi di febbre guerriera. Leoni, diresti, sciabolate di odio dagli occhi! Non è vecchio, non ristagna l'annuncio dei fatti. Anzi - io mi staccavo, pian piano - c'era già spartizione. Dall'urna, ciascuno estraeva a che soglia guidare la propria colonna.
Devi reagire. Schiera di volo ai tuoi varchi d'uscita i perfetti campioni, il fiore di Tebe. È l'ora, ci è addosso l'armata nemica, blocco di ferro che assale, polvere alta, scrosci di bava lucente dalle froge al galoppo, a chiazzare il terreno. Tu, si direbbe, hai buona esperienza di manovra alla barra, sul ponte. Quindi rafforza la chiglia di Tebe, prima che turbini raffica d'Ares. Mugghia - marea in terraferma - l'armata. Tu afferra il rimedio più pronto alla crisi attuale. Per me, farò dei miei occhi scolta fidata anche al chiaro del sole. Dai miei scrupolosi messaggi saprai ogni fatto, là fuori, e non avrai colpi maligni. Il Corriere parte.
O Zeus, o Terra, e voi, dèi che cingete il paese; Potenza, travolgente Vendetta che il padre imprecò, Tebe, la mia Tebe almeno non strappatela via - arbusto divelto dal ceppo, desolata rovina, spoglie all'ostile ferocia - lei, le famiglie, le domestiche mura: lei, che irraggia, modula in greco la lingua! Libera patria, Stato figlio di Cadmo: stanghe schiave non li inchiodino mai! Fate scudo. Vi coinvolge il discorso, io spero: si sa, un paese, se ha buona fortuna, ripaga i Potenti.
Eteocle si avvia alle mura.
Si precipita senza ordine in scena il Coro di fanciulle tebane.
Ululo orrore, abisso d'angoscia:
dilaga l'armata. Straripa dal campo
marea vasta, fulminea di gente al galoppo.
La vedo! È spia quel volo di polvere in cielo:
non ha voce, ma parla sicuro, non mente.
La mia terra è preda di zoccoli cupi.
S'insinua il rombo, s'impenna, rugge:
un'acqua a schiantare la rupe, diresti,
trionfante. Dèi, oh, dee, sperdete
quest'alba di male.
Urlio varca la cinta.
Barbaglio di scudi. Il nemico si muove
schierato, ritma il passo su Tebe.
Chi farà scudo? Chi potrà arginare,
un dio, una dea? Che altro mi resta
se non adorare, prostrata, i Potenti?
O Maestà benedette,
culmina l'ora d'abbracciare le sante effigi.
Pianto su pianto: vano l'indugio.
Vi giunge o non vi giunge battito di scudi?
Se non oggi, quando intrecceremo suppliche
fatte di veli e ghirlande?
Ho negli occhi il tumulto: non è cozzo
di lancia solitaria!
Che decidi? Rinneghi, vecchio dio del paese,
o Ares, la tua Tebe?
O potente Elmo d'Oro, volgi gli occhi alla terra
che un tempo legasti al tuo affetto.
str. I
Celesti patroni di Tebe
apparite, guardate quest'ala di donne
che fa voti per non essere schiava.
Rigurgita, accerchia la cinta,
marea di eroi.
Spumeggiare di creste, ai soffi rabbiosi di Morte.
O cosmica Potenza, Zeus padre
sbarra senza spiragli
l'assalto predone.
E gli Argivi attanagliano
la fortezza di Cadmo: orrore,
lame nemiche! In bocca ai cavalli
le briglie battono ritmo omicida.
Sette eroi - gemme in mezzo all'armata -
corazze irte di picche, ai sette varchi
si schierano: ciascuno al suo posto fatale.
ant. I
Figlia di Zeus, Potenza che nel sangue
hai la lotta, fa' barriera al paese
o Atena! E tu, o Santo, che cavalchi
e reggi l'abisso con l'arma che arpiona,
Posidone sciogli, sciogli noi dall'angoscia!
E tu, Ares, veglia sul borgo che ha Cadmo
nel nome: fa' capire ch'è tuo, che l'ami!
Tu Cipride, radice materna del sangue
storna ogni male: da te
noi siamo sorti, e a te ricorriamo
col canto in cui vibra
il tuo nome divino.
E tu, dio del Lupo, fatti sterminatore del lupo
armato nemico...
E tu, figliuola di Leto, arma il tuo arco.
str. II
Fragore di ruote accerchia la rocca
lo sento! O Maestosa Era
ululavano i perni per lo sforzo degli assi:
Artemide mia
l'aria pulsa folle squarciata di dardi.
Che accadrà della patria? Che ne sarà?
Fin dove dio sospinge il limite estremo?
ant. II
Sassaiola bersaglia gli spalti, lassù:
o Apollo mio!
Rombo di piastre metalliche, ai varchi.
Esaudisci, tu che al cenno di Zeus
risolvi con fine solenne la guerra,
sul campo.
E tu, santa, benedetta Onca fuori le mura
salva il tuo sacrario dalle sette porte!
str. III
Dèi, dèe, cosmiche Forze
Potenze estreme
scolte ai baluardi della patria
non tradite il paese segnato dal ferro
all'armata che parla straniero.
Esaudite - come è santo e giusto -
queste donne in preghiera, con le palme protese.
ant. III
Oh mie Potenze divine
curvatevi su Tebe, salvatrici
splendete di luce d'amore.
Prendetevi a cuore il popolo devoto
e se il cuore vi spinge, lo porrete in salvo.
Fate mente, vi prego, ai riti solenni
in cui si consuma l'amore di Tebe.
Eteocle, tornato dalle mura, parla alle donne del Coro.
Voi, ascoltatemi - creature di disgusto - bell'eroismo il vostro, bella difesa per Tebe! Dà slancio ai guerrieri bloccati qua dentro il vostro aggrapparvi agli idoli santi, patroni di Tebe! E poi strida, schiamazzi: orrore, per chi ha equilibrio! No, no. Disgraziato - o felice e beato - io non faccio famiglia con questa carne di donna.
Se ha potere, scatta, non puoi viverle accanto; ma può prenderla il panico, ed è guaio più grave alla casa, allo Stato. Anche oggi. Questo vostro incrociarvi, fuggitive, sbandate, l'urlio che dilaga: è uno schianto nervoso per la gente di Tebe, l'ha annichilita. Per loro là fuori, invece, è un fior di favore: per noi uno sfacelo.
Colpa nostra, siamo noi la radice. Ecco i frutti, a spartire la vita con donne. Chi non vuol essere docile a questo potere che ho - femmina, maschio, creatura mediana - avrà contro regolare sentenza di morte. Niente paura: non sfugge al supplizio dei pubblici colpi di sasso. È terreno dell'uomo, l'esterno. Non ha peso la donna, non deve. Tu sta' lì , tra le quattro pareti, non creare dei danni. M'hai sentito, o per nulla? Mi comprendi, se parlo?
str. I
Eteocle, quel rombo, quel rombo,
martellare di carri... l'ho in testa, incubo
cupo, sibilare di perni rotanti
di morsi ossessivi, barre piantate
tra i denti ai cavalli
briglie fucinate alla fiamma.
S'è mai visto il nostromo scovare rimedio che salva, sbandando su e giù per il ponte, con lo scafo spossato sull'abisso che bolle?
ant. I
Ma io venni di volo agli idoli antichi
dei Potenti. M'abbandonavo agli dèi: fuori,
tempestava le porte, ruggiva tormenta omicidia.
M'avventa il terrore, a supplicare i Beati:
spieghino salda barriera su Tebe.
«La cinta sia stagna ai colpi di picca»: questo implorate. Non starà dalla parte dei numi, la cosa. Certo, gli dèi della città s'eclissano, dopo la rotta: è noto.
str. II
No, mai! Finch'io duro, non dilegui
questa folla santa di dèi! No, vedere
Tebe preda di gente sbandata, soldatesche
avvolte da vampe assassine!
Attenta. Chiama pure gli dèi: ma ragiona, non smarrirti. Docilità è madre di Buona Fortuna, e sposa di Riparo: è
proverbio.
ant. II
È così . Ma vigore di Dio è abisso più fondo.
Spesso affondi. Non hai scampo.
Pena brutale. Sugli occhi,
ti stagna la nube. Ma Egli ti erge.
Cose da uomini, immolare, scrutare gli dèi nel rischio di guerra. A te tocca immoto silenzio, nel cerchio domestico.
str. III
Per mano celeste godiamo patria inviolata
contro la cinta ristagna la calca nemica.
Merita sdegno rabbioso il mio atto?
Non sarò io a sbarrarti il culto del mondo divino. Ma penso ai miei uomini. Per non spegnerli, dentro, devi placarli,
frenare il delirio d'angoscia.
ant. III
M'ha sorpreso sordo impasto di colpi.
Sgomento inquieto, ed eccomi all'ara sacra
alta su Tebe.
Può darsi sentiate di gente che muore, di carne squarciata. Non voglio da voi frenesie di dolore, d'ululati. Di questo si sfama la Guerra, di sangue vivo.
Eccoli, sento cavalli frementi.
Sentili pure. Ma non splenda, che senti.
Trema Tebe dal ceppo. L'attanagliano, pare!
Basto io, a fronteggiare gli eventi.
Tremo tutta. Rinforza il crepitare alle porte.
Sta' zitta! Non vociare così , in mezzo a Tebe.
Santa schiera celeste, non rinnegare le mura!
Sprofonda! Non chiudi la bocca, non ti freni?
Dèi cittadini! Non voglio vivere serva.
Tu, osservi te stessa, me e Tebe al completo.
Zeus, che puoi tutto, avventa lo strale al nemico.
Zeus, che creatura ci affiancasti, la donna!
Disperata - non meno di voi, uomini - se uno stato rovina.
Ancora voci sinistre, avvinta agli dèi?
Panico preda la lingua. Mi sento svuotata.
Compi ciò che ti chiedo. Una cosa da nulla.
Puoi dirlo, fa' presto. Saprò subito dirti!
Sta' zitta, maledetta, sta' zitta! Non abbattere i miei.
Sto zitta. Spartirò con voi tutti il patire fatale.
Ecco, così mi piace sentirti parlare. Non come prima. Ma non basta. Esci dal cerchio degli idoli, di' la preghiera potente: «Dèi, siate con noi nella lotta!». Ora sai la preghiera che voglio. Tu giubila, inneggia al trionfo - note fauste, devote, culto greco d'acclamare la vittima sacra - conforto, alla cerchia dei nostri: dilegua così la paura dell'urto guerriero. A me, ora (Eteocle prega):
«Ai Celesti custodi della terra nativa, scorta al contado, al cuore di Tebe; agli sgorghi di Dirce, all'Ismeno scorrente: uditemi. Se l'evento è benigno, se Tebe verrà risparmiata, io faccio voto che noi insanguinando di vittime i sacri bracieri degli dèi, abbattendo tori agli dèi, ringrazieremo della rotta nemica, con queste mani voglio inghirlandare le sante pareti di prede, d'armature nemiche schiodate a colpi di picca».
Ecco, questo implora agli dèi, senza ebbrezza di pianto, senza raffiche d'urla cieche, incivili: non temere, non scamperesti meglio alla fine. A me, ora. Esco, schiero sei uomini - settimo Eteocle - ai sette varchi di cinta, urto di remi ai campioni rivali - nobile sfida! - prima che piombino qui corrieri stravolti, groviglio chiassoso di voci, a soffocarci d'ansia rovente, febbrile.
Eteocle parte.
str. I
Con tutto il cuore: ma non so placarmi,
dentro, dall'ansia. Assediano il cuore
gli incubi - vampa d'orrore -
della forza che stringe le mura,
quale colomba che palpita, muore
d'angoscia sui piccini che cova
davanti alle serpi
cancro del nido.
Laggiù, contro gli spalti
- blocco d'uomini, massa concorde -
marciano. Di me che sarà?
Di là - cerchio chiuso di colpi -
bersagliano Tebe
di sassate taglienti.
Rivolgiti ovunque, semenza divina
di Zeus, ma salva l'armata,
il sangue di Cadmo.
ant. I
C'è suolo al mondo, meglio del nostro,
o dèi, per trapiantarvi, se cedete al nemico
questo terreno, spesso e generoso
e l'acqua Dircea? Dà vita
più d'ogni sorgente
fluente da Posidone
che fascia la terra
e dalle Oceanine, figlie di Teti.
Provvedete, Santi custodi!
Incutete alla gente là fuori
la bassa paura: annulla
l'essere umano! E la frenesia
smarrita, armi che volano a terra!
Fate trionfare l'onore
del popolo vostro, o scudi di Tebe!
Radicatevi ai vostri sacrari
grazie allo stridulo coro di pianti!
str. II
No, no. Che pena: città millenaria
inabissata all'inferno, selvaggina
prostrata dal ferro, velo riarso
di cenere, degradante sfacelo
sotto pugno acheo, mosso da dio!
Ah, povere inermi razziate - giovani,
vecchie - per le ciocche annodate,
puledre, diresti: lacera
rovina di cenci. La città si dissangua,
impasto di grida. Il bottino vivente
s'avvia al suo strazio, in un gorgo di urla.
Trasalisco: il domani è una cappa di pena.
ant. II
E che nodo alla gola, se la castità giovinetta
prima che il rito ne colga l'acerba primizia
sarà sviata a nemiche dimore.
Anzi! Chi cade - fin d'ora lo dico -
ha fine più lieta di noi giovinette.
Purtroppo, come un popolo crolla,
la sua fine è grumo di aspro destino.
Qua e là si predano schiavi: chi massacra,
chi semina fiamme; sull'intero abitato
chiazza stagnante di fumo. Sui folli di paura
dall'alto alita Ares: snerva le genti
insozza la pia religione.
str. III
Ovunque violenza, nel borgo. Rete
ingabbia le torri. Armato per mano d'armato
sotto il ferro stramazza.
Mugolio palpitante di sangue
di piccoli al seno
caldo del latte materno.
Razzie, gente sbandata: è intimo intreccio.
Chi ha preda s'affianca a chi ha preda
chi è senza dà voce a chi è senza
per avere un aiuto alla caccia.
Cresce la brama: non s'accontenta.
Il pensiero precorre la fine di tutto.
ant. III
Rovina di frutti confusi, per terra:
fa soffrire quella,
che è casa di donne dolenti.
Impasto opaco, immenso
i doni della zolla
piombano in cieche fiumane.
Per le giovani schiave, nuove miserie...
...notte d'amore strappata col ferro
da un uomo che ha vinto, nemico
prepotente, timore che questo sarà rito
di nozze, strida, a suggello di pene colme di pianto.
Ecco la scolta, donne, mi pare. Recherà fresco messaggio dal campo: avventa di volo trascinante rotare dei piedi.
Ecco là il principe, il figlio di Edipo. Incastro perfetto, potrà udire il racconto del messo. Anche a lui, vedete, l'ansia
sregola il passo.
Da parti opposte, entrano Eteocle e il Corriere.
So tutto. Fatemi dire le mosse nemiche, una per una, che schieramento hanno estratto, davanti alle porte.
Tideo è già lì , di fronte alla soglia di Preto. Rugge. Ma il veggente non lascia che varchi il guado d'Ismeno: non vengono belli i presagi di sangue! Delira Tideo, spasima, vuole lo scontro, si sgola: rettile, pare, che stride nel caldo del sole. Martella brutale sul chiaro veggente, sul figlio d'Oicleo: «Senza fegato, abbassa la coda davanti all'ora fatale, alla lotta perfino!».
Così lastra e scrolla tre creste, masse d'ombra, corona irsuta dell'elmo. Dallo scudo, nel cavo, trilli di bronzo battuto, scroscio che gela. Sullo scudo il marchio, lo stemma della sua arroganza. Eccolo: cielo metallico, incendio di stelle; in mezzo alla piastra raggia plenilunio terso, solenne, maestà astrale, gemma del buio notturno. È la sua frenesia, sotto armatura sdegnosa: e ulula, rasente l'orlo del fiume, irta passione di lotta. Un puledro, diresti che vibra, ansima contro le briglie, ha dentro lo scatto, teso al primo urlo di tromba. Che antagonista gli schieri? Chi dà pegno di saldo riparo alla porta di Preto, al cadere dei pali?
Fregio d'uomo nemico non può dare brivido, a me. Non possono farsi autori di squarci, i suoi marchi. Creste, scampanio: non azzannano senza la picca. E quel buio famoso là sopra lo scudo, balenare di stelle nell'aria... chissà, la demenza può farsi profeta, a qualcuno. Certo, se crolla e buio gli piomba sugli occhi, questo stemma troppo sdegnoso fa reale il suo nome, per lui che l'imbraccia. Retto castigo!
Io a Tideo contrappongo il bravo figliuolo di Astaco, campione a presidio del varco. È di ceppo purissimo. Non solo.
Per lui, Ritegno è sacro. Ne ha il culto. Ha orrore d'insolenze chiassose. È indifferente al male: non sa la bassezza. L'ha nel sangue. Il suo tronco affonda nella semina d'uomini, superstiti della rissa mortale. Sì , è genuino di questo suolo, Melanippo! L'esito è un volo di dadi: giudica Ares. Naturale Patto di sangue è l'intimo scatto imperioso, per lui, a sviare la punta nemica da questa Madre nativa.
str. I
Al mio combattente diano trionfo
gli dèi: è santo il suo ergersi
campione di Tebe! Ma io palpito:
vedere la pozza di sangue, la fine
di loro disfatti a difesa dei cari!
Oh, certo, gli diano trionfo gli dèi!
Capaneo ha estratto l'urto contro porta Elettra. Pezzo d'uomo, anche lui. Schiaccia il primo, di cui t'ho parlato. Il suo cervello ribolle: non ha limiti al mondo. Grandina sfide ai torrioni. Non le faccia reali il futuro! Spianerà Tebe, sta urlando, con il consenso di dio. Anche senza! Né sdegno rabbioso di Zeus, rovinandogli innanzi, potrebbe bloccarlo.
Fulmini, scoppi di folgori, che sono per lui? Somigliano a folate d'afa, col sole a picco nel cielo. Imbraccia uno stemma: nudo uomo, armato di fiamma. Sciabola in pugno torcia lucente. Dalle labbra, tutta d'oro, una frase: «Tebe arderò». Che uomo. Schièragli... chi può resistergli? Chi argina, immoto, quel guerriero ululante?
Altro caso in cui da profitto, fresco profitto matura. Sì , nel mondo, la lingua denuncia franca il cieco pensare. Capaneo provoca, insiste, ha impulso teso all'azione. Il cielo non conta per lui. Allena le labbra a un giubilo vuoto. Ha dentro la morte ma inonda l'aria su fino a Zeus, col suo scroscio bollente di urla. Io ho fede che giustizia gli precipiti addosso la folgore armata di fiamma. Vediamo, se somiglia a calde folate di sole alto nel cielo!
Altro uomo è pronto per lui, già in armi. Lingua inerte ma, dentro, vulcanico scatto. È Polifonte, una forza: corazza che non tradirà. Dalla sua, a salvarlo, ha il sorriso d'Artemide e d'altri Celesti.
Continua. Chi è il destinato alla prossima porta?
ant. I
Morte, a chi impreca tremendo su Tebe.
Lama di saetta l'inchiodi
prima che s'avventi su me, a predarmi
dalle stanze di giovane donna
col ferro arrogante.
[Bene.] Dirò [il prossimo estratto contro le porte]. A Eteclo, per terzo, toccò il terzo sorteggio dal cavo dell'elmo metallico: sferrare l'orda alla porta Nuova. Mulina puledre, già tutte brividi, scarti sotto le briglie, golose del volo, dello schianto alle porte. Fischiano, le musoliere, un'esotica aria, quando fa groppo la raffica dalle froge rabbiose. Sullo scudo lo stemma è di stile non basso: un guerriero pesante, piolo su piolo, scala il torrione nemico, goloso di preda. Anche dalle sue labbra un urlo, catena di segni intrecciati: «Neppure Ares mi sradica via dal bastione!». Anche contro di lui manda chi s'impegni a scrollare da Tebe le stanghe da schiavi.
[Ho l'uomo. Potrei dirgli subito: va'!] Ma ecco, è già in marcia. Nelle braccia ha la sua prepotenza, Megareo di Creonte, rigoglio fiorito dalla semina umana. Non lo fanno inquieto gli scoppi, le folate ossessive dei puledri, là fuori. Non farà un passo via dalla porta: o cadendo salda il suo conto alla Terra, che l'ha fatto uomo; o preda i due armati - con tutto il bastione, là sullo scudo - ghirlanda di spoglie nemiche alla casa paterna.
Va' avanti. Sentiamo che altra bravata. Non risparmiare parole.
str. II
Invoco esito buono all'evento
- o mio campione di Tebe - al nemico sfacelo.
Svetta da gole nemiche l'insulto su Tebe.
Cervelli sconnessi. Zeus che castiga
scocchi su loro l'occhiata dell'odio.
Il prossimo, quarto, occupa il varco seguente, di Atena Onca. Si fa sotto, tra scoppi di urla. È Ippomedonte. Una massa. Statuario, enorme. Mulinava la distesa di un'aia: lo scudo rotondo, vi dico. Io gelai! Basta, non più parole. Non era certo incisore mediocre chi plasmò per lo scudo la scena. Ecco Tifone, dalla gola che alita vampe sfoga caligine negra, sinuosa sorella del fuoco. Grumi di serpi costellano l'orlo, fanno solido blocco là dove s'incava lo scudo falcato, rotondo. «Morte!» ha ululato. Fanatico d'Ares, smania per l'orgia di guerra. Un ossesso, diresti. Paralizza, lo sguardo. Devi imbrigliare lo scatto di questo guerriero. Senti? Panico è là, davanti alla porta, e scaglia bravate.
Primo. Atena Onca ha sede qui nel sobborgo, porta a porta con Tebe. Odia lo squilibrato: gli sbarrerà la nidiata, come a un rettile freddo. Secondo: Iperbio, sangue buono, di Enopio, è campione eletto a misurarsi in duello con lui. È deciso a scrutare che parte gli tocca, nella stretta dell'ora fatale. Eroe senza macchia: né fuori, visibile, né intima, né come imbraccia le armi. Bella la scelta di Ermes, d'annodarli: un uomo sta per scontrarsi con l'uomo che odia. Nel cozzo di scudi, porteranno a lottare dèi antagonisti. Uno imbraccia Tifone che alita fiamma. A Iperbio Zeus padre troneggia immoto sull'arma. In pugno, ha lama di fuoco. E finora, occhio umano non ha scorto disfatta di Zeus! Così si spartisce l'affetto dei Potenti. Noi apparteniamo a chi trionfa, loro a chi cade. Per i rivali prevedo identica fine, se nel duello Zeus schiaccia Tifone. Parla chiaro lo stemma d'Iperbio: Zeus è con lui, sullo scudo, e lo salva. Così vuole il destino.
ant. II
Sì , sono serena: chi ha in mezzo allo scudo
- carne ingrata, inumana, terrigena -
il rivale di Zeus, sagoma odiosa
ai viventi, ai Potenti perenni,
avrà fronte spaccata nell'urto alla porta.
Lo desidero tanto. Al racconto del quinto, ora, già in posizione d'attacco alla porta del Nord, ch'è la quinta. Là, sì , alla tomba d'Anfione, il figlio di Zeus. Giura sull'asta che stringe - è il suo dio, l'adora caparbio, più della luce degli occhi - che è sicuro, svuoterà l'abitato tebano: dovesse lottare con Zeus! Così tuona, bocciolo fiorito da una che ha il covo sui monti: splendida fronte, eroe intriso d'uomo e di bimbo. Da poco dilaga peluria sul volto - germoglio dell'età tenera - scura macchia di piuma nascente. Ma la mente è gelida, dura, non rispecchia il fanciullesco del nome.
Eccolo, che avanza: lo sguardo t'impietra. Certo, non è umile il modo con cui si pianta alla porta: in mezzo allo scudo martellato di bronzo - rotonda fortezza dell'uomo - imbracciava lo sfregio di Tebe, la Sfinge - carne viva, tra i denti - placca ingegnosa saldata con chiodi, disegno in rilievo, lucente. Schiaccia un corpo, un tebano: così quest'uomo diventa bersaglio favorito dei colpi. Non ha l'aria di uno venuto a spacciare due soldi di guerra: anzi, deciso a non disonorare una missione partita da tanto lontano, l'Arcade Partenopeo, Viso Fanciullo.
Che guerriero. Eppure, è un emigrante. Vuole saldare splendidamente il suo debito ad Argo, che gli ha offerto la vita. Che minacce, ai torrioni di Tebe: che dio non le faccia reali!
Ricada su loro il progetto! Concedilo, dio! Su loro, sugli sfoghi rabbiosi, sacrileghi! Che sfacelo, che abisso di male
sarebbe, a stroncarli! Anche per l'eroe che racconti, per quest'Arcade, è pronto un campione: uno senza bravate, ma il braccio vede bene il bersaglio. È Actor, fratello dell'altro che ho appena chiamato. Non vorrà che lingua sonante - senza sostanza di fatti - irrompa dentro la cinta, e moltiplichi i mali.
Non darà varco, da fuori all'interno di Tebe, all'armato che imbraccia l'emblema del mostro, peggiore nemico, sullo scudo nocivo. Sfogherà il suo livore, la Sfinge, su lui che l'imbraccia, quando all'ombra di Tebe subirà un crepitio di percosse. Se il Cielo è disposto, le mie sono parole reali.
str. III
Mi prende l'anima il tuo ragionare.
Pure, brivido irto mi scorre la treccia
se sento l'alto vociare d'alteri
sacrileghi eroi. Oh, dio
massacrali tutti sul suolo tebano!
Il sesto ora vi narro. Campione di savio equilibrio, e fior di guerriero. Anfiarao profeta: una forza. È già in posizione: attacca le soglie Omoloidi. Intanto, bersaglia Tideo poderoso d'insulti pesanti: «Tu, assassino, guastatore della vita civile, artista geniale di mali per Argo, portavoce d'Erinni, braccio destro di Strage, strumento che ispira ad Adrasto i suoi mali di oggi!». Poi, rovesciando il nome di quel tuo fratello, Polinice, sì , il Millerisse, smembrando il nome lo chiama.
Sulle labbra, spiccano gravi parole: «Bravo, bel gesto! Benedetto da dio! Che onore, questa storia, tra le genti future, tu che strazi la terra dei vecchi, gli dèi del paese, con l'urto di forze raccolte da fuori! È qui la tua fonte nativa: e non c'è ritorsione, per cui sia giusto seccarla! Credi che se inchiodi la terra paterna ai colpi del ferro febbrile, sia lieta, poi, di schierarsi al tuo fianco? Io sono pronto. Concimerò questa zolla, profeta avvolto nel cavo di zolla nemica.
Battiamoci. Non sarà senza luce la fine. È fatale, lo sento». Questo predicava il veggente, e imbracciava quieto lo scudo, una massa di bronzo: sul disco non spiccava figura. Ha un proposito, infatti: non parere, ma essere il primo! Fa fruttare il solco intimo, dritto, del savio pensiero: vi germogliano probe scelte di vita. Perciò attento. Manda contro quest'uomo una ciurma di gente che vale, di braccio e di testa: è tremendo, chi ha religione.
Guai! Che fatalità fa incrociare la strada di un giusto coi peggiori sacrileghi! In ogni vicenda, nulla è peggiore di pessimi soci: meglio non coglierne i frutti. Maggese di Perdizione frutta morte. Capita: un uomo, un buono, sale a bordo in mezzo a una ciurma riarsa dalla febbre del male. È finita, rovina con loro, ceppo segnato da dio.
O un altro, un probo che viva in un paese incivile, scontroso, dove dio è sconosciuto: è fatale, finisce irretito nella stessa gabbia, in ginocchio, trafitto dall'equa, indifferente sferza divina.
Parlo anche per lui, per il figlio d'Oicleo, il veggente: equilibrato, probo, eroico, religioso. Un maestro, nel dire il futuro.
Eccolo - è violenza morale, per lui - invischiato in un gruppo di empi, di lingue arroganti, già avviati a una meta troppo lontana, che non ha ritorno: se è volere divino, franerà con loro, nello stesso sfacelo. Ho un'idea: non urterà neanche i battenti. Oh, non pensiate per poco coraggio, per fiacco slancio. Ma sa che è segnato, che questo scontro sarà la sua fine, se il presagio d'Apollo fiorisce. [E Apollo o tace, o parla giusto: l'ha nel sangue.]
Non importa. Schieriamogli contro un nobile eroe, Lastene, una forza: guardiano scontroso, incivile! Stagionato cervello, ma addosso una primavera di carne. Sguardo corridore. Nel pugno, il suo ferro non è pigro a colpire là dove scudo non copre. Dio, solo dio regala ai viventi il trionfo.
ant. III
Sentiteci, dèi! Maturate le sante
suppliche nostre. Tebe trionfi!
Sviate lo strazio tagliente
sui nostri aggressori al di là della cinta.
Zeus li saetti, li folgori a morte.
Ecco il settimo, alla settima porta. Sono pronto a ridire - sì , è lui, tuo fratello - che casi maligni bestemmia, impreca su Tebe: prima calpesta le torri, si fa proclamare campione, riversa sui vinti il suo inno frenetico, poi t'incrocia, t'ammazza e ti crolla vicino. Se scampi, castiga in te il suo usurpatore: scambio d'identica pena, l'esilio randagio, fuggiasco. È il suo proclama.
Chiama per nome gli dèi familiari della terra nativa - che tengano fisso lo sguardo al suo supplicare - Polinice potente. Regge scudo di fresca fusione, un disco perfetto: sopra, placca ingegnosa, un duplice stemma. Ecco, uomo d'oro sbalzato, uomo di guerra, all'aspetto. Lo conduce un'effigie di donna: è composta, conosce la strada. Dice che è lei, proprio lei, la Giustizia. L'incisione l'afferma: «Sarò io a rimpatriare quest'uomo: riavrà una vita civile, girerà da padrone tra le mura native».
Tutte qui le malizie di quelli là fuori. Ora a te: sappi chi ti par bene schierare alle porte. Di me non potrai lamentarti, son certo, di come t'ho riferito. Ora a te. Pensa tu a guidare lo Stato al suo porto. Il Corriere esce.
O sangue indemoniato, carico d'odio divino, o universo di lacrime, o sangue mio che vieni da Edipo! Aaah, è il tempo: matura l'imprecazione del padre! No, no. Né singhiozzi, né chiasso. Non è dignitoso. Che non dilaghi poi il piagnisteo: non potrei sopportarlo. Per chi è specchio vero del nome - a Polinice, alludo - presto sapremo fin dove dà frutto il suo stemma, se saprà rimpatriarlo quella scritta d'oro fuso in mezzo alla piastra, sciocco profluvio d'un cervello sbandato.
Se Giustizia - figliola immacolata di Zeus - gli stesse vicina, mentre pensa o agisce, certo questo potrebbe accadere. Ma non è così . Da quando fu espulso dal buio cavo materno, poi nel tempo delle cure infantili, adolescente, e al primo addensarsi di peluria sul viso Giustizia mai gli ha rivolto uno sguardo, un segno di stima. Non gli farà da fedele scudiera in quest'ora, nello sfacelo del suolo paterno! Non credo, non posso. Sarebbe l'esatta smentita al suo nome, Giustizia, alleata a un essere che in corpo ha insolenza pura.
Tutto ciò mi dà forza serena. Vado allo scontro: sì , io solo. E chi avrebbe più giusto motivo? Da principe a principe, fratello a fratello, nemico contro nemico: l'affronterò immoto. Forza, cominciamo: qua i gambali, baluardi ai colpi di lama e di sasso.
No, mio principe, no, figlio di Edipo! Non ridurti, nel tuo slancio brutale, pari a quell'altro, che urla follie. Guerrieri Cadmei si battono contro gli Argivi. È sufficiente. Si lava, quel sangue. Ma nodo suicida di morte tra due dello stesso
sangue... non, non è chiazza che possa appassire.
Puoi subire una fine violenta, ma senza ignominia. E sta bene: è l'unico pregio che vale, tra i morti. Ma patire col male l'infamia non puoi dire sia fonte di gloria.
str. I
Che febbre la tua, povero figlio? Scatto cieco
dilagante, pazzo di sangue, non possa predarti!
Strappati il seme di sinistra passione.
Incalza i miei casi - bufera di colpi - un dio. Dunque, veleggi al gorgo infernale, sul filo del vento, tutto il ceppo di Laio. È Destino: ha addosso l'odio di Apollo.
ant. I
Azzanna nel vivo, t'aizza lo spasimo
d'immolare un essere umano: rito di sangue
sacrilego, che frutta tormento.
L'ostica Voce Imprecante... di mio padre - occhi riarsi, che non sanno il pianto -, mi attacca, mi spiega il vantaggio di una rapida fine, su una fine più tarda.
str. II
Tu almeno non farla più svelta. Non passerai
per abietto, se hai il bene di vivere.
Vendetta ammantata di buio lascia le mura,
se all'offerta devota sorridono, infine, gli dèi.
Dèi, dèi! Devi dirlo? Da un pezzo non contiamo più nulla, per loro. Un dono solo salutano in festa, da noi: ch'io perisca. Ha senso, vezzeggiare la mia funebre fatalità?
ant. II
Ora, almeno: t'è tanto vicina! Ma se, lenta
Maledizione svia il suo corso, può toccarti
con più soave spirare. Oggi ribolle.
Ah, ferve, trabocca l'imprecazione di Edipo. Davvero sincere le fantasie degli incubi, nel sonno, quello spartirsi l'eredità del padre...
Esaudisci noi donne. Non importa, se t'è atto sgradito.
Di' proposta concreta. Farla lunga non serve.
No, non tu! Non andare laggiù, alla settima porta!
Ho la tempra del ferro. Non mi smussi, parlando.
Anche una vittoria opaca ha stima, dal cielo.
A un uomo di guerra non piace questo tuo dire.
Dunque hai deciso, falcerai identico sangue fraterno.
Dio ti regala sfacelo: assurdo schivarlo. Eteocle esce.
str. I
Tremo tutta. M'agghiaccia la dea
- cancro in famiglia, di dea
non ho nulla, veggente sinistra, sincera
Rissa imprecata per bocca di padre -
oh, non maturi la maledica vampa
d'Edipo demente.
Preme l'Erinni, la Rissa, sfascio del ceppo.
ant. I
Un forestiero assegna agli eredi
le quote. Calibo, emigrante scita
scalco affilato di beni
e sostanze: l'acciaio dalla fredda tempra!
Ha già fatto le parti: a ciascuno, di terra
- per starci - quanta ne abbraccia la salma.
Tutti gli altri possessi svaniti.
str. II
Dopo morte suicida
- incrocio di squarci -
e che la zolla sorbisca
cupa chiazza di sangue mortale
chi ha in serbo il rito che lava,
che cancella? O penoso
intrico di strazi, a palazzo,
d'antichi e di freschi!
ant. II
Parlo della trasgressione antica
punita di volo
- s'abbarbica al terzo ciclo di vite -
quando Laio - Apollo era contro,
profetando tre volte da Pito,
dal cuore del mondo, che solo
una fine senza germogli
salvava lo Stato -
str. III
Laio cedette all'intima brama
smarrita, creò la sua fine fatale
Edipo omicida di padre.
E lui - scatto dolente - piantò nella zolla
solenne materna - suo nido di vita -
seme, ceppo cruento: frenesia
che annienta il sentire
li saldava nel letto d'amore.
ant. III
È un abisso. Risacca di mali
c'inonda. Flutto che piomba. Eccolo, svetta
il seguente, culmina in tre, e rigurgita
alla fiancate di Tebe.
In mezzo si stende
- breve spessore a difesa - l'arco d'un muro.
Ho paura. A fianco dei principi
potrebbe cadere in ginocchio lo Stato.
str. IV
Maturano ormai - peso che schiaccia -
gli epiloghi delle imprecazioni antiche.
La rovina sfiora la miseria e passa:
ma l'abbondanza spessa, carnosa,
d'uomini incontentabili
produce lanci di zavorra, dal ponte.
ant. IV
A che uomo sorrisero tanto
dèi e gente della casa...
e la piazza gremita di folla
da eguagliare le feste a Edipo
quando abolì dal paese
quel demonio vorace di carne?
str. V
Ma quando il disperato
aprì gli occhi sulle nozze
oscene, lo torceva lo strazio.
Spasimava la mente
e maturò due crimini orrendi:
di suo pugno - grondava di sangue
paterno - arretrò sbandando dagli occhi
più preziosi dei figli;
ant. V
e schiumante per la miseria
di quella mensa, folgorò sui suoi figli
maledette voci. Squarciava, la lingua!
«Giorno verrà, che col ferro nel pugno
a spartire, s'assegneranno i beni».
Ecco il mio brivido, ora:
oh, non le faccia mature
la Rissa, l'Erinni che spezza le gambe.
Rientra il Corriere
Fatevi forti, figliole, ancora avvolte dal calore materno. Tebe nostra è salva: via il collare da schiava! Crollò la folata arrogante di guerrieri nervosi. Tebe naviga in pace. Tra gli schiaffi dell'abisso agitato, non stivò acqua la chiglia. Fa scudo la cinta. Sbarrammo i varchi, campione contro campione: nel duello non delusero, i nostri! L'esito è buono, in complesso, alle prime sei porte. La settima fu scelta esclusiva del santo Principe, Patrono del Sette, di Apollo: così concretava - rovina al ceppo di Edipo - il delirio antico di Laio.
Che colpo improvviso s'è aggiunto alla nostra Tebe?
Morti, gli eroi, scambio di colpi omicidi.
Quali? Che hai detto? Deliro, all'orrenda notizia.
Ascolta, non delirare: il frutto d'Edipo...
Oh, già soffro, indovino dolori.
Non brancolare. Riversi per terra...
Sul campo, caduti? Peso che schiaccia. Non importa. Racconta.
Così s'abbatterono. Fratellanza eccessiva di mani assassine. Tebe è sicura, ma la Terra s'imbeve del sangue dei principi fratelli. Reciproco assassinio. Così maledetto destino li strinse in un nodo. Sì , destino disperde quel sangue sinistro. Sono eventi degni di festa, e insieme di pianto. Ecco, Tebe trionfa: ma i principi, coppia di capi guerrieri, si sono spartiti la massa di beni con l'acciaio di Scizia, temprato dal maglio. Di terra, ne avranno quanta ne copre la tomba. Sull'onda dell'imprecare paterno, raffica torva, maligna. Il Corriere parte.
Zeus maestoso; Potenze
baluardi di Tebe, che gli spalti di Cadmo
... tutelare.
Non so: giubilo, inneggio
al Salvatore che fa intatto il paese,
o canto la nenia ai capi guerrieri
desolati, sinistri, senza affetto di figli?
Specchi perfetti del nome
in mezzo a «mille risse»
caddero: e fu sacrilego intento.
str. I
Cupa, fruttifera Voce maledica
d'Edipo al suo sangue:
freddo di morte mi cade sul cuore.
Ordisco sul tumulo un'aria
di nenia ossessiva, ora che so
la morte disperata, le salme,
gli sgorghi cruenti. Macabro aleggia,
presago, il nodo sonoro dei colpi.
ant. I
Culmina, non s'è smentita
la maledica Voce paterna.
Varcano il tempo le indocili voglie di Laio.
Cerchio di strazio su Tebe.
Non si smussa parola di dio.
Entra lento un corteo guerriero. A spalle i due principi morti. Dietro, Antigone e Ismene.
Eccoli, piangeteli forte! Crimine
assurdo, il vostro! Strazi pieni di pianto, ormai,
reali, non a parole.
Tutto traspare: spicca la notizia del messo.
Nodo d'angoscia a vedersi, morte gemella.
Scambio suicida di colpi. Definite
due quote di lutto. C'è altro, da dire?
No. Solo che in cuore alla casa s'ammucchia
male su male.
Amiche. Ritmate alla brezza del pianto
i pugni alle tempie: impulso battente di remi
che ogni volta traghetta di là d'Acheronte
desolata, morta crociera, macchia buia
che scivola a lande ignote ad Apollo, a notte perenne
all'opaco albergo del mondo.
Ma ora scorgo Antigone e Ismene.
Vengono allo straziante ufficio, al lutto
sui corpi fraterni. Io penso
che dal profondo dei seni
colmi d'amore, autentico strazio
sprigioneranno. Ne hanno diritto.
È rito che noi precediamo il cordoglio
con l'ululo sordo ch'esalta l'Erinni
con l'inno atroce trionfale di morte.
A voi toccarono i più maledetti fratelli,
a voi, tra quante s'allacciano in vita la fascia.
Io spasimo, gemo. Non frodo:
sgorga dritto dal cuore il mio urlo.
Echeggia il compianto funebre.
str. I
- Misere menti distorte
diffidaste dei vostri, insensibili ai colpi
all'assalto col ferro dei beni paterni.
Disperati!
- Sì disperati, che disperato morire
incrociarono, infangando le case.
ant. I
- Aaah, sradicaste domestiche mura
esperti di quanto sia duro il potere
di re. Ormai con l'acciaio
scioglieste la rissa.
- Voci troppo sincere d'Edipo:
le ha fatte reali la ferrea Erinni.
str. II
- A sinistra
squarciati
certo squarciati, al fianco
nato dallo stesso seno
..........
Ah segnati da Dio
ah, gli auguri di morte si fanno
scambio di strage.
- Piaga, tu dici, che inchioda squarciando
carne e domestiche mura
ferocia che non ha parole
spaccatura devastante, fatale
per la parola maledetta d'un padre.
ant. II
- Singhiozzi traffiggono
da un capo all'altro il paese.
Singhiozza la cinta, singhiozza la piana
colma di vita. Saranno eredità
di gente future i domini, radice
rovinosa di Rissa,
della sua soluzione mortale.
- Con acre intento spartirono
tutto: che le quote fossero eque.
Al mediatore non risparmiarono
astio i più intimi cari dei due:
non ha tenerezze, Ares!
str. III
- È il loro stato: scavati dal ferro.
E scavati dal ferro son pronti per loro
- chi? qualcuno può dire -
due posti nella fossa paterna!
- Echeggia domestica nenia
accompagna i due
devastante, querulo dolente
curvarsi gemendo su sé!
E disperato, franco grondare di pianto
dall'intimo mio. Mi stempero
lacrimando sulla coppia regale.
ant. III
- Riconosciamolo: grave tormento
inflissero, lui alla sua gente tebana,
lui alle schiere addensate da fuori
massacrate sul filo del ferro.
- Ah, segnata da dio, chi diede la vita
più d'ogni donna
che si fregi del nome di madre.
Proprio suo figlio fece suo uomo!
Questi ne ebbe, questi due:
si scambiarono morte le mani
fiorite dallo stesso sangue.
str. IV
- Stessa semenza. Intreccio perfetto di morte.
Dilaniarsi rabbioso, frenesia di lotta
nel coronarsi dell'odio.
- È caduto il rancore. In terra
rivoli mortali: amalgama
di vita. Ora, vale il vincolo del sangue!
Tagliente è il piacere dell'odio,
forestiero marino, sorto da rigoglio
di fiamma, l'acciaio affilato. Tagliente
lo scalco maligno dei beni,
Ares: fa vera, la malèdica Voce paterna!
ant. IV
- Disperati! L'hanno avuta
la quota fatale di pena: dono del Cielo!
Cadaveri, coprono spazio
dominio senza fondo di terra.
- Ah, florido diadema di strazi
intrecciate alla casa! Ormai è la fine:
Maledizione ululò la sua stridula aria
sul ceppo schiantato, disfatto.
Erto, immoto ai varchi di Tebe
- là lo scambio di colpi - il trofeo
di Cieca Colpa. Al doppio trionfo
sinistra Potenza posò.
Ferito feristi
Tu dando la morte cadesti.
Di picca uccidesti.
Di picca cadesti.
Tu, tormentatore.
Tu, tormentato.
Riverso...
... data la morte.
Gemito, scorri.
Pianto, scorri.
str. I
Aaah!
Aaah!
Spasimo, dentro, di lutto.
In petto lacrima il cuore.
Meriti immenso pianto, tu.
Tu anche, strazio immenso.
Annientato da uno dei tuoi.
E uno dei tuoi uccidesti.
Doppio compianto.
Doppio incubo.
Eccoci, affiancate al tormento...
... noi sorelle accanto ai fratelli.
Fatalità disperata, che schianti col male.
Troneggi, o spettro d'Edipo!
Cupa Vendetta, puoi tutto.
ant. I
- Aaah! - aah!
strazio, cui rilutta, lo sguardo
... reduce d'esilio, a me
non rientrò prima uccise
scampato emise l'ultimo fiato
- ultimo fiato. - e l'altro trucidò
- misero ceppo. - che visse miserie
- angoscia dolente racchiusa in un nome
- impasto devastante di pene
Fatalità disperata, che schianti col male.
Troneggi, o spettro d'Edipo!
Cupa vendetta, puoi tutto.
Ne hai passate, tu. Sei esperto.
Tu non fosti più tardo, a imparare.
Da quando ritornasti in Tebe...
... a speronarlo, a colpi di picca.
Storia di morte.
Visione di morte.
Aaah, strazio!
Aaah, sofferenze!
Per la famiglia.
Per la terra.
Per me, per me. Io sono la prima.
Anche per me.
Principe di sinistri mali,
...
...
Eteocle capo.
Tu meriti il pianto. Più di tutti.
Indemoniati da Cieco Errore.
In che spazio di terra potremo deporli?
Nel più sacro e prezioso.
Lutto che a fianco del padre riposa. Il corteo esce.
Entra un Banditore
Io devo intimare gli editti e i pareri del Consiglio che regge lo Stato cadmeo. Ecco il bando: Eteocle, che amò la sua terra, calerà nella fossa con le esequie dovute ai più cari. S'oppose ai nemici e scelse la morte sul suolo nativo. Fu devoto alla religione dei vecchi. Senza macchia, cadde nel punto in cui morte è splendore agli uomini in fiore.
Così mi hanno ingiunto di dire, sul conto d'Eteocle. Suo fratello, questa carne morta di Polinice, sarà scagliato là fuori. Senza fossa, strazio di cagne.
Lo merita: sconvolgeva il paese di Cadmo, se un dio, bloccandolo, non gli inchiodava la picca. Anche caduto, conserva per sempre la chiazza del crimine contro i numi nativi: nel suo sacrilegio, sferrava l'armata raccolta da fuori, e tentava la presa di Tebe. Quindi la decisione è che stormi d'uccelli, a folate, siano fossa a quest'uomo. Sconti, nella degradazione, il giusto grado di pena. Non abbia il conforto d'un pugno di terra, funebre mucchio, né il rito dell'urlo, modulato, tagliente. Degradato, senza onoranze dei suoi. Così è il decreto del governo cadmeo.
Io ai potenti di Tebe rispondo: se pure nessuno è disposto, con me, a scavargli una fossa, io lo farò sfiderò questo rischio d'inumare il fratello. Non ho pudore di rompere il patto, rivoltarmi allo Stato. Nodo enorme la vita dallo stesso ventre, da madre afflitta, da padre sinistro. Oh, mio cuore, osa: spartisci la rovina con lui che non ha più volontà.
Da viva a morto, con fraterno sentire. Non sfamerà mai la sua carne gole abissali di lupi. Non fateci conto. Tumulo, funebre fossa per lui: scoverò io, come fare. Sono donna, che importa? Userò il lembo del peplo di velo.
Sono sola, ma l'avvolgerò. Nessuno s'aspetti smentite. L'ardire avrà dalla sua espediente efficace.
T'avverto. Non tentare assalti allo Stato.
T'avverto. Non impormi bandi superflui.
Bada. È rude uno Stato sfuggito a sfacelo.
Rude, rude, ripetilo. Ma lui non sta più senza fossa.
Uno che incarna l'odio di tutti, tu lo fregi di tomba?
Il suo caso non è ancora deciso dal giudizio divino.
Non lo era, sinché precipitò nel rischio il paese.
Patì offesa, con offesa rispose.
Fu per tutti il colpo che spettava a uno solo.
...
Ultima dea, la Rissa, tronca i diverbi.
Farò la fossa a quest'uomo. Tu sii breve.
Come vuoi. Io devo dirti «non farlo».
Aaah, aaah
Imperiose, cancro del sangue
Vendette Funeree, il tronco d'Edipo
abbatteste dal ceppo.
Che devo patire? Che decido? Che scelgo?
Come oserò di negarti la nenia,
di non farti corteo alla tomba?
Ma ho panico, dentro. Mi torce
il terrore dello Stato tebano.
A te almeno, toccheranno
lugubri singhiozzi. Ma lui, disperato, in silenzio
col gemito solo d'una sorella
dovrà avviarsi. Chi si piegherà al comando?
Lo Stato può agire o non agire
contro chi geme Polinice morto.
Noi ci muoviamo. Saremo, lì , alla fossa.
Faremo ala alla salma.
Questo lutto ci avvolge tutti, qui a Tebe.
Solo, lo Stato impone varia giustizia
a seconda dei casi.
Noi no. Noi siamo con lui. Come lo Stato
e come il diritto comanda.
Sì - dopo i Celesti, e il trono di Zeus -
quest'uomo strappò dall'abisso
il paese di Tebe: l'avrebbe inondato
marea forestiera d'armati.
Senza riparo.