La scena si svolge a Tebe.
Io, il figlio di Zeus, sono ora qui, in questa terra di Tebe, io, Diòniso: mi partorì la figlia di Cadmo, e per levatrice ebbe la fiamma della folgore. Ho mutato il mio aspetto divino in sembianze umane, sono giunto alla fonte Dirce, alle acque
dell'Ismeno. Vedo il sepolcro di mia madre, incenerita dal fulmine, accanto alla
reggia, e i resti delle case, fumiganti per l'incendio di Zeus: continua a ardere, oltraggio che non si estingue di Era contro mia madre. Lodo Cadmo, che ha reso
inaccessibile questo luogo, il santo sepolcro di sua figlia: io, l'ho ammantato
tutto intorno col verde dei grappoli della vite.
Ho lasciato le pianure di Lidia e di Frigia, ricche d'oro, le plaghe assolate della Persia, le mura della Battriana, il gelido paese dei Medi, ho attraversato l'Arabia felice, tutta l'Asia, che si adagia lungo il mare salmastro con le sue città belle di
torri, dove vivono confusi Greci e barbari. Mi sono spinto sin qui, subito dopo
avere fatto danzare l'Asia, introdotto i miei riti, per rivelarmi dio ai mortali.
In Grecia, ho cominciato a scatenare grida acute di donne proprio a Tebe, ne ho
ricoperto il corpo con la pelle del cerbiatto, ho messo nelle loro mani il tirso, un'arma avvolta di edera. Perché le sorelle di mia madre - e non dovevano,
loro, - negarono che Diòniso fosse figlio di Zeus, dissero che Sémele, sedotta
da un uomo, aveva rigettato su Zeus la colpa delle sue voglie, una bella trovata di Cadmo. E per questo, esclamavano esultanti, Zeus aveva ucciso Semele, per
avere mentito sui propri amori. E così io queste brave sorelle lo ho fatte impazzire, fuggire dall a reggia: abitano sul monte e delirano: le ho costrette a indossare i paramenti del mio rito. E tutto il seme femminile di Cadmo, le donne,
nessuna esclusa, le ho cacciate farneticanti di casa; insieme alle figlie di Cadmo vivono sotto i verdi abeti, sulle nude rocce. Anche se non vuole, la città di Cadmo deve imparare - non è iniziata ai miei riti: devo difendere mia madre, io,
devo apparire ai mortali nella mia veste di dio, di figlio del grande Zeus. Le
insegne del potere Cadmo le consegnò a Penteo, progenie di sua figlia, e Penteo combatte contro dio, nella mia persona: mi elimina dalle offerte, non mi ricorda
nelle preghiere. Per questo mostrerò che sono un dio a lui e agli altri Tebani.
E poi, una volta rimesse in ordine le cose qui, mi dirigerò verso un'altra terra, rivelerò ancora chi sono. Se la città di Tebe, nell'ira, cercherà di ricondurre a forza,
giù dal monte, con le armi, le Baccanti, darò battaglia, capeggiando le Mènadi.
Ecco perché ho mutato il mio aspetto in quello di un mortale, perché ho assunto natura d'uomo. Ma voi che avete lasciato il Tmolo, che protegge la Lidia, voi, donne del mio corteo che ho condotto via dai barbari, compagne della mia quiete e del mio viaggio, brandite i timpani della terra frigia, invenzione mia e di Rea, la grande Madre. Affollatevi intorno alla reggia di Penteo; percuoteteli questi strumenti, perché la città venga a guardarci. Io me ne vado ora a raggiungere le Baccanti sui pendii del Citerone, mi unirò alle loro danze.
Dalla terra d'Asia
lasciato il sacro monte Tmolo
per Bromio accorro a una dolce impresa,
a una lieve fatica:
esalto Bacco in allegri evoè.
Ehi, per la strada, ehi, voi!
Uscite dalla reggia!
Purifichi ciascuno le sue labbra, in silenzio:
voglio inneggiare sempre a Diòniso
come è prescritto..Euripide Baccanti
3
str.
Beato chi riceve la grazia
di entrare nei divini misteri:
santifica la vita,
consacra l'anima nel tìaso,
e pio si purifica,
celebra sui monti
Bacco
e i riti della
gran madre Cibele;
scuotendo alto il tirso,
il capo cinto d'edera,
si fa ministro di Diòniso.
Andate, andate, Baccanti,
riconducete dai monti di Frigia
alle ampie contrade dell'Ellade
Diòniso, il figlio di un dio,
Diòniso,
il dio Bromio.
ant.
La madre lo portava in seno.
Precipitò il tuono di Zeus.
La colse la trappola del parto:
abbattuta dal fulmine
espulse alla luce morendo
il figlio concepito.
Subito Zeus nato da Crono
gli offrì un riparo nascosto,
un nuovo grembo materno:
lo pose al sicuro nella coscia,
che ricucì con fibbie d'oro,
nascondendolo agli occhi di Era.
Ma quando fu compiuto il tempo
fissato dalle Moire generò
un dio dalle corna di toro,
lo inghirlandò con serti di serpenti;
e con serpenti, preda selvaggia di caccia,
intrecciano ora le chiome le Menadi.
str.
o Tebe, che hai nutrito Semele,
incorònati di edera, fiorisci, trabocca
di verde e rigogliosa smilace,
baccheggia
con fronde di quercia o di abete,
orna con ciuffi di lana
i velli screziati che indossi.
Impugna i tirsi che ti fanno violenta,
renditi pura: presto
verrà danzando ogni contrada al monte,
quando Bromio conduca il suo corteo:
al monte dove aspetta
la folla delle donne;
invasate da Diòniso
han disertato le spole e i telai.
ant.
o dimora nascosta dei Cureti,
divini antri di Creta.Euripide Baccanti
4
grotta natale di Zeus,
lì i Coribanti dagli elmi tricuspidi
per me inventarono
questo cerchio di legno
ricoperto di pelle ben tesa:
e nell'acceso baccanale ardente,
fusero le sue cadenze
al melodioso respiro dei flauti di Frigia;
lo consegnarono a Rea per scandire
i ritmati evoè delle Baccanti.
Dalla dea madre
passò ai deliranti Satiri,
entrò con essi ai tripudi, alle feste
che ogni due anni
rallegrano Diòniso.
ep.
Con animo lieto sui monti
si stacca
dalla frenesia del tiaso
si getta a terra nella sua sacra pelle di cerbiatto
cerca sangue di capri uccisi
gioia di carne cruda
avventandosi
per i monti di Frigia e Lidia,
Bromio, la nostra guida, evoè.
La terra ha rivi di latte, vino, nèttare d'api.
Il celebrante - c'è fumo
come d'incenso di Siria - si lancia
agitando sul tirso fiamma ardente di pino,
eccita colla danza, scuote
con grida acute chi accorre,
rovescia al vento i suoi morbidi capelli.
Insieme agli allegri evoè mugghiano intorno,
fremono queste parole:
andate, andate Baccanti,
orgoglio del Tmolo dai fiumi dorati,
cantate Diòniso al suono profondo dei timpani,
celebrate con inni di gioia il dio della gioia,
tra voci e clamori di Frigia,
quando il flauto sacro diffonde sonoro
sacre melodie; i canti accompagnano
le donne furiose sul monte,
sul monte.
Felice, come una puledra al pascolo con la madre,
con balzi veloci corre la Baccante.
Non c'è nessuno alla porta? Chiamatemi fuori Cadmo, figlio di Agenore, il fondatore di Tebe, che lasciò Sidone per cingere di torri questa rocca. Qualcuno si muova, gli dica che Tiresia lo cerca: lui sa la ragione per cui sono qui, l'accordo che ho stretto, io vecchio con uno più vecchio ancora di me, di far fiammeggiare i tirsi, di indossare pelle di cerbiatto, di cingere il capo con foglie di edera.
Carissimo, ho udito, da dentro, e riconosciuto la tua voce, la voce saggia di un
uomo saggio: eccomi pronto, con i paramenti del dio. Lui è figlio di mia figlia e bisogna che ne esalti, con tutte le mie forze, la grandezza. Dove andiamo a
danzare, a battere il suolo col piede, a agitare le nostre teste canute? Tu vecchio, guida me vecchio: sei un esperto, Tiresia. Perché mai mi stancherò né di giorno né di notte di battere la terra col tirso: è piacevole scordarsi di essere vecchi.
Lo stesso capita a me: anch'io mi sento giovane, e proverò a danzare.
Per andare fin lassù, prendiamo il carro?
Ma il dio così non lo si onora nel modo giusto.
Allora io vecchio farò da pedagogo per te, vecchio.
Dio ci guiderà senza sforzo.
Siamo i soli uomini, in Tebe, a danzare in onore di Bacco?
Siamo i soli a capire, gli altri sono sciocchi.
È penoso aspettare: affrettiamoci, aggràppati al mio braccio.
Prendimi la mano, e tienila stretta.
Non sarò io, uomo, a disprezzare gli dei.
Non è sapienza da esibire, la nostra, di fronte al dio. Le tradizioni ricevute dai padri, antiche come il tempo, nessun discorso le rovescerà, neppure se menti sottili si inventano cavilli sottili. Diranno che disonoro la mia vecchiaia, andando a ballare col capo cinto di edera? Ma il dio non distingue giovani e vecchi, se si deve danzare, ma vuole ricevere onore da tutti, da tutti insieme; non separa le categorie quando vuol essere celebrato.
Tu non vedi la luce, Tiresia; le mie parole interpreteranno per te le cose. Ma c'è Penteo, figlio di Echione: si sta dirigendo in fretta verso la reggia: a lui ho trasmesso il potere su questo paese. È tutto stravolto: che novità ci porta?
Ero lontano, mi trovavo fuori, e solo ora sento dei mali piombati sulla città. Le nostre donne hanno abbandonato il focolare, si scatenano in falsi tripudi, si sfrenano nei boschi ombrosi, onorano con danze un dio molto recente, Diòniso,
o comunque si chiami. Ci sono coppe colme nei loro riti, si acquattano, dandosi
il cambio, in luoghi appartati, per sottostare ai maschi, col pretesto che sono Mènadi, sacerdotesse del dio: in realtà a Bacco antepongono Afrodite. Quelle che ho preso sono ora ospiti, in catene, delle prigioni di stato: alle altre, a Ino, a mia madre Agave, a Autonoe, madre di Atteone, darò la caccia su per il monte; le stringerò nelle mie reti di ferro: vedrete se non la finiscono con questo indegno baccanale, e presto. Dicono che è arrivato uno straniero dalla Lidia, uno stregone, uno che fa gli incantesimi: ha riccioli biondi, la zazzera profumata, gli occhi lucenti per le grazie di Afrodite, frequenta giorno e notte le giovani, offrendo le sue gaudenti iniziazioni. Se lo sorprendo sotto questo tetto, smetterà, state tranquilli, di percuotere il suolo col tirso, di dimenare la chioma: gli stacco la testa dal collo, io. E quel ciarlatano sostiene che Diòniso è un dio, che fu cucito nella coscia di Zeus, mentre, si sa, lo distrusse il fuoco di un fulmine insieme alla madre, perché aveva mentito su Zeus e il suo amore.
Cose tremende, roba da capestro, oltraggi su oltraggi, chiunque sia lo straniero.
Ma c'è un altro fatto straordinario. Eccoli lì, il profeta Tiresia nella pelle screziata di un cerbiatto , e il padre di mia madre - è tutto da ridere - che folleggia con un bastone in mano. Mi rivolta, padre, la vostra senilità vuota di cervello.
Cosa aspetti a buttar via l'edera, a rompere il contatto della tua mano col
tirso, tu, padre di mia madre? E tu, Tiresia, sei stato tu a convincerlo: vuoi introdurre un nuovo dio tra gli uomini - quello là - per trarre auspici, ricavare soldi dai sacrifici interpretati. Ringrazia che ti proteggono i capelli bianchi, altrimenti saresti già in galera, colle Baccanti, per avere introdotto riti ignobili. Quando, in un banchetto, il vino scintilla per le donne, io dico che in festini così non c'è
più nulla di sano.
Parole empie. Straniero, tu non hai nessun rispetto per gli dei, per Cadmo, il
capostipite della stirpe del drago: sei figlio di Echione, e ne disonori la progenie.
Quando un individuo saggio e capace si attacca a una causa giusta, non è
difficile essere eloquenti. Tu hai la lingua sciolta di chi in apparenza ragiona bene, ma nei tuoi discorsi manchi di cervello. Un uomo pronto a tutto e abile nel
parlare è un cattivo cittadino, perché è uno sconsiderato. Questo nuovo dio di
cui ti fai beffe, non saprei neanche accennarti quanto sarà grande in Grecia. Due sono, mio caro giovane, le cose essenziali al mondo: la dea Demetra, ossia
la terra (chiamala così, se vuoi): è lei a nutrire la gente con i cereali, con il cibo asciutto. Poi è venuto il figlio di Sèmele; e ha trovato un corrispettivo, l'umido succo della vite, e lo ha introdotto fra i mortali. Il vino spegne i dolori delle persone che soffrono, quando si riempiono della linfa dei grappoli, dispensa il sonno, oblio dei mali di ogni giorno, per le fatiche offre l'unico rimedio. Diòniso è un dio versato in libagioni agli altri dei: grazie a lui gli uomini hanno i beni che hanno.
E tu lo schernisci perché fu cucito nella coscia di Zeus? Lascia che ti spieghi cosa significa tutto questo. Zeus sottrasse il neonato al fuoco della folgore, lo trasportò nell'olimpo per farne un dio. Ma Era voleva scaraventarlo giù dal cielo:
Zeus escogitò un rimedio davvero degno di un nume. Dell'aria che circonda la
terra ne spezzò una parte, per consegnare questo strano parto alla collera di sua moglie. Col tempo, gli uomini dissero che Diòniso era stato nutrito in un arto di
Zeus; avevano confuso suoni simili, parto con arto, e così si fabbricarono una
leggenda.
Questo essere soprannaturale, Diòniso, è un profeta: invasamento e follia hanno
grande virtù profetica. Quando il dio penetra in una creatura colla pienezza della sua potenza, rende capace chi delira di predire cosa succederà. Diòniso possiede qualcosa che è proprio anche del dio della guerra: semina il panico in un esercito schierato in armi, prima ancora che le lance cozzino tra di loro. Ecco un'altra pazzia che nasce da Diòniso. E lo vedrai, un giorno, saltare in mezzo alle fiaccole nell'altopiano a due picchi tra le rocce di Delfi, brandendo e agitando il tirso bacchico, lo vedrai grande nell'Ellade. Dammi retta, Penteo: non presumere che conti il potere legale fra gli uomini, non illuderti di avere ragione se hai un'idea e l'idea è malsana: accetta questo dio nel tuo stato, versagli libagioni, partecipa ai suoi riti, cingiti il capo di ghirlande.
E non sarà certo Diòniso a obbligare le donne alla virtù nei confronti di Afrodite: la moralità è un fatto interiore: una donna casta non si corrompe nei Baccanali.
Vedi, tu sei contento, quando molti si affollano alle tue porte, quando la città
inneggia al nome di Penteo: anche Diòniso, non ti pare?, si rallegra di venir onorato. Io e quel Cadmo che tu schernisci, coronati di edera, andremo a danzare; noi, una coppia di vecchi col capo canuto andremo a danzare lo stesso:
e non entrerò in lotta con un dio in base ai tuoi discorsi. Tu sei dolorosamente pazzo, non c'è antidoto per i tuoi mali, il veleno è dentro di te.
Vecchio, tu hai rispetto per Febo parlando come parli, e onori, da saggio, Bromio, che è un grande dio.
Figlio, Tiresia ti ha consigliato bene: sta con noi, non metterti contro le antiche tradizioni. ora sei sottosopra e il tuo cervello funziona male. Anche se non è un dio questo, come sostieni tu, riconosci lo stesso che è un dio: menti con profitto, dichiara che lo è; così si penserà che Semele ha partorito un dio e la gloria ricadrà su di noi, su tutto il casato.
La sorte disgraziata di Atteone la conosci: lo sbranarono, tra macchie incolte,
cagne feroci che pure aveva allevato lui, e questo perché si vantava di essere più bravo di Artemide a caccia. Non vorrei che ti capitasse qualcosa di simile. Vieni
qui, lasciati incoronare il capo di edera, rendi con noi onore al dio.
Metti giù la mano, vattene ai tuoi Baccanali, non mi sporcare colla tua pazzia.
A questo tuo maestro di follie, gliela farò scontare io. Presto, sbrigatevi: qualcuno vada al suo seggio profetico, dove trae responsi dal volo degli uccelli, e butti tutto all'aria coi rebbi del tridente, rovesci, sconvolga tutto, getti al vento, alle intemperie le sue bende sacre. Ecco la mia azione che gli brucerà di più.
E voi, guardie, sguinzagliatevi per il paese sulle tracce dello straniero effeminato che attacca una nuova peste alle donne e insozza i letti. E quando l'avrete preso, legatelo, portatelo qui: dovrà morire a colpi di pietra, sperimenterà in Tebe una
danza bacchica amara.
Poveruomo, non sai quello che dici. Avevi cominciato a dar segni di squilibrio,
adesso sei completamente matto.
Andiamocene, Cadmo: preghiamo il dio di non far del male a questo individuo,
tanto bestiale, né al paese. Vieni con me, col tuo bastone avvolto di edera; cerchiamo di sostenerci a vicenda, non è bello che due vecchi cadano per terra; ma sia quel che sia, noi dobbiamo servire Bacco, il figlio di Zeus. Che non entri
con Penteo pena nelle tue case, Cadmo: non lo dico perché sono profeta, ma in base ai fatti: Penteo è un demente e parla da demente.
Sacra signora tra gli dei,
Santità, che stendi sulla terra
le tue ali d'oro,
non senti le parole di Penteo?
La sua empia superbia,
l'offesa al dio Bromio, al figlio di Sèmele,
al dio che nelle feste belle di ghirlande
è il primo tra i beati?
Ecco i doni del dio:
iniziare alle danze dei tiasi,
mescolare le risa al suono dei flauti,
troncare gli affanni,
quando lo splendore dei grappoli
rallegra le mense in onore degli dei,
e nei conviti ornati di edera
il vino delle coppe avvolge gli uomini
nell'abbraccio del sonno.
ant.
Bocche senza freno, stoltezza senza limiti
hanno per esito solo sventura:
ma la quieta esistenza e il saggio pensare
resistono saldi e sicuri, tengono unita la casa.
Perché anche di lontano i celesti
dalle sedi dell'etere
vedono le opere degli uomini.
Il semplice sapere non è saggezza,
non lo è il pensare cose
che non spettano ai mortali.
Breve è il tempo della vita:
e chi aspira a grandi mete
non ottiene neppure
le gioie del presente.
Penso che vivere così
sia da folli,
da dissennati.
str.
Vorrei raggiungere Cipro, l'isola di Afrodite,
dove abita l'amore che incanta
le menti dei mortali,
e Pafo, dove le acque di un fiume straniero
dalle cento bocche
fecondano una terra senza pioggia.
E la regione più bella,
la Pieria, sede delle Muse,
sacro pendìo dell'olimpo,
là conducimi, Bromio, Bromio,
dio che tra festosi evoè
guidi e precedi le Baccanti.
Là stanno le Grazie e il
Desiderio: là alle Baccanti è lecito
celebrare i sacri misteri.
ant.
Il dio figlio di Zeus
si allieta dei banchetti, è amico della pace,
la dea che nutre gli uomini e dona ricchezza.
Al povero, al ricco
il dio, imparziale, concede
il piacere del vino che allontana il dolore.
Egli odia chi non vuole
trascorrere felice la vita
nella luce del giorno, nel buio amico,
chi non tiene, da saggio, cuore e mente
distanti dagli uomini tronfi.
Quanto a me, io voglio accettare
ciò che è nell'opinione dei più,
la fede della gente semplice.
Siamo qui Penteo: abbiamo catturato la belva contro cui ci avevi mandato. Non è
stata vana la spedizione. Ma lo abbiamo trovato un essere mite, non cercò di balzare via in fuga, si lasciava legare docilmente, senza impallidire, senza perdere il bel rosso delle guance. Sorridendo ci invitava a stringere i nodi, a tradurlo davanti a te, e restava fermo: mi ha reso facile il compito. E io, con un senso di vergogna, gli dissi: straniero, non per mio volere ti porto via: ci ha inviati Penteo con questi ordini. Invece le Baccanti, da te incarcerate, che avevi rastrellato e chiuso nelle galere pubbliche, sono sparite: libere balzano di macchia in macchia, invocando il dio Bromio. I ceppi dei piedi si sono disserrati da soli, le chiavi hanno girato da sole nelle porte. Da quando quest'individuo è a Tebe, i miracoli si moltiplicano. Ma sono affari tuoi.
Scostatevi da lui. È intrappolato nelle nostre reti, e non è tanto veloce da riuscire a sottrarsi a me. Di fisico, non sei poi tanto brutto, straniero, almeno agli occhi delle donne, motivo della tua venuta a Tebe. Hai i capelli sciolti, provano che
non frequenti palestre, ti scendono lungo le guance, accendono i desideri. Hai
la pelle bianca e vuoi averla bianca, stai all'ombra, eviti i raggi del sole: dai la caccia a Afrodite, con la tua bellezza. Avanti, comincia col dirmi da che lombi discendi.
Nessun vanto, per carità. La risposta è semplice. Hai sentito parlare del Tmolo,
il monte dei fiori?
Certo, il monte che gira tutto intorno alla città di Sardi.
Io vengo di laggiù, la mia patria è la Lidia.
I riti che tu importi in Grecia, dove li hai appresi?
Diòniso in persona me li ha insegnati, il figlio di Zeus.
Perché, laggiù c'è uno Zeus che fabbrica nuovi dei?
No, è lo Zeus che si è congiunto qui in nozze con Semele.
Ti ha obbligato in sogno, o ti è apparso realmente?
Io lo vedevo, lui mi vedeva, e mi ha trasmesso i suoi riti.
E di che specie sono, per te, questi riti?
Segreti, da non comunicare ai non iniziati.
Ma chi li celebra, ne ricava un guadagno?
Non ti è concesso saperlo, anche se sarebbe prezioso per te.
Risposta ben falsificata, per suscitare la mia curiosità.
Le cerimonie del dio hanno in orrore i sacrileghi.
E tu dichiari di avere visto bene il dio com'era.
No, come voleva essere lui: non ero io a poter disporre.
Hai aggirato l'ostacolo con le tue vuote chiacchiere.
Chi parla da savio sembra stolto a chi è ignorante.
È questo il primo posto dove sei venuto a immettere il tuo dio?
Tutti i barbari ne celebrano il culto danzando.
Perché sono molto più stupidi dei Greci.
Molto più intelligenti, in questo caso, anche se hanno costumi diversi.
Le cerimonie si svolgono di giorno o di notte?
Soprattutto di notte: l'ombra comporta solennità.
E inganni e marciume per le donne.
Anche in pieno giorno si può incappare in vergogne.
Dovrai render ragione delle tue malvage sottigliezze.
E tu della tua insipienza, della tua empietà verso il dio.
È sfrontato il nostro Bacco, ben conosce la palestra delle parole.
Dimmi, cosa mi capiterà, cosa mi farai di tremendo?
Comincerò a tagliarti quei graziosi riccioli.
La mia chioma è sacra: la lascio crescere in onore del dio.
Poi, mi consegnerai il tirso che impugni.
Strappamelo tu di mano: il tirso che stringo appartiene a Diòniso.
E infine, custodiremo in prigione il tuo bel corpo.
Provvederà il dio in persona a liberarmi, quando lo vorrò.
Certo, quando lo invocherai ritto in mezzo alle tue Baccanti.
Anche ora lui è qui, vicino, e vede cosa soffro.
Ah, sì? I miei occhi non lo vedono. Dov'è?
Dove sono io. Tu sei un empio, perciò non puoi vederlo.
Prendetelo: questo individuo insulta me e Tebe.
E io vi dico che è meglio non legarmi, io savio a voi insensati.
E io, invece, ordino di legarti, perché ho maggiore autorità di te.
Tu non sai né quello che dici, né quello che fai, e neanche chi sei.
Io sono Penteo, figlio di Agave, mio padre è Echione.
Tu porti, ed è giusto, un nome di pena, di malaugurio.
Va via. Chiudetelo nelle stalle qui accanto, perché veda l'ombra fitta delle
tenebre. Là dentro balla quanto ti pare. Le donne che ti sei portato dietro, complici dei tuoi misfatti, le venderemo sui mercati, o le utilizzerò come schiave ai telai, in casa. La smetteranno di suonare questi sordi, ossessivi tamburi.
Muoviamoci pure: quello che è scritto, è scritto. Ma Diòniso verrà a chiederti
conto di questa violenza, Diòniso che secondo te non esiste: è lui che tu metti in catene, quando fai torto a me.
str.
Dirce, figlia di Acheloo,
vergine benedetta, ti invoco:
perché hai bagnato con le tue acque
il figlio di Zeus, quando Zeus generatore
lo sottrasse alla folgore inestinguibile,
lo rinserrò nella coscia. Disse, tuonando:
Vieni, figlio due volte partorito, entra
nel nuovo grembo, che io, maschio,
ti offro: nato due volte, ecco il tuo nome,
e con esso svelo a Tebe la tua natura divina.
Ma tu, Dirce beata, mi scacci,
non accogli sulle tue sponde
i miei tirsi ornati di ghirlande.
Perché mi respingi? perché mi fuggi?
Ma un giorno, lo giuro
sulla vite dai dolci grappoli, dono di Diòniso,
anche tu volgerai il pensiero a Bromio.
ant.
Che furia, che ira
esplode nel figlio della terra,
in Penteo, stirpe del drago?
Lo generò Echione, figlio della terra,
che procreò un mostro selvaggio, non
un uomo, ma un sanguinoso
nemico di Dio, come i giganti.
Presto egli nella sua rete
stringerà anche me, la compagna di Bromio;
già tiene prigioniero nella reggia
chi guidava il mio tiaso,
l'ha chiuso in un luogo di ombra.
Ma tu, Diòniso, figlio di Zeus,
vedi tutto ciò? I tuoi profeti
lottano contro una forza oppressiva.
Ascoltaci, signore,
tu che scuoti il tuo tirso d'oro,
scendi dal cielo, ferma la violenza
di un insolente assassino.
Dove sei, ora, Diòniso? Scandisci
col tirso i ritmi del tiaso
sul Nisa, asilo di belve?
o sulle cime di Delfi? o nelle foreste
del monte olimpo, dove un tempo orfeo
al suono magico della cetra,
attraeva le piante,
le bestie feroci?
Te beata, Pieride,
ti onora il dio della gioia, verrà
con i suoi cori, i suoi riti.
Traverserà i vortici dell'Assio e
il corso del padre Ludia, generoso di
ricchezze e di felicità ai mortali,
il Ludia che feconda - dicono -
con le sue belle acque
una regione ricca di cavalli:
verrà il dio, guiderà
le danze inebrianti delle Menadi.
Ascoltate la mia voce, ascoltatela, Baccanti, oh, Baccanti.
Questo grido. Da dove, col suo grido, mi chiama il Dio della gioia?
Oh, voi, di nuovo vi chiamo, io, il figlio di Semele, io, il figlio di Zeus.
Signore, vieni, signore, ti prego, al nostro tiaso, tu, Bromio, Bromio.
Sconvolgi il suolo di questo paese, sisma divino.
Ah, ah. Presto le case di Penteo saranno squarciate da scosse. Diòniso è nella
reggia. onoratelo - Lo onoriamo - Vedete?
Vacillano le travi di pietra sulle colonne. Bromio alza dentro la reggia il suo grido di guerra.
Accendi la fiaccola violenta della folgore. Brucia le case di Penteo, bruciale.
Ah, non vedi il fuoco, non lo scorgi intorno al santo sepolcro di Semele? Arsa
dal fulmine lasciò dietro di sé questa luce del tuono di Zeus. Prostratevi a terra, coi corpi che tremano, prostratevi, Menadi. Assale questa reggia, rovescia alto e
basso lui, il Signore, il figlio di Zeus.
Voi, donne barbare, perché giacete al suolo così prostrate dalla paura? Avete
sentito - si direbbe - Bromio che scuoteva dalle fondamenta la reggia di Penteo. Alzatevi, coraggio, smettetela di tremare tutte.
O luce eccelsa, per noi, delle feste di Bacco, sono così contenta di vederti, ero rimasta sola, abbandonata.
Vi ha preso lo sconforto, quando mi han condotto via, pensando di gettarmi nelle
buie galere di Penteo?
Certo, che mi ha preso lo sconforto. Chi mi avrebbe protetto, se la sventura
colpiva te? Ma come hai fatto a liberarti dalle mani di quel sacrilego?
Non è stato difficile per me salvarmi senza fatica.
Ma non ti aveva legato i polsi con delle corde strette?
Anche questa beffa gli ho giocato: credeva di averlo fatto, e invece non mi ha
toccato, anzi neppure sfiorato: si nutrì di illusioni. Trovò un toro nelle stalle dove mi aveva condotto e rinchiuso: con corde gli stringeva ginocchia e zoccoli,
ansimando d'ira, madido di sudore in tutto il corpo, stringendo le labbra con i
denti. Io gli ero accanto, stavo tranquillamente seduto a guardare. Ed ecco, in quell'istante, Bromio fu lì, cominciò a scuotere la reggia, ravvivò la fiamma sul sepolcro di sua madre. Appena ne scorge il bagliore, Penteo pensando
che bruciasse il palazzo, balza di qua e di là, ordina ai servi di portare fiumi d'acqua; tutti i servi si mettono all'opera, si davano da fare, ma per niente. Poi, di
colpo, lo travolge un altro assillo, gli viene l'idea che io sia scappato: si precipita, afferra dentro al palazzo una spada dai cupi riflessi. Bromio, almeno credo, è opinione mia, fabbrica un fantasma nel cortile: Penteo si avventa contro il
fantasma, ripetutamente trapassa il vuoto scintillante, credendo di sgozzare me.
Ma Bacco gli infligge un ulteriore oltraggio; fa crollare l'intero palazzo, è tutto un ammasso di rovine; Penteo ha visto come è amaro gettarmi in catene.
Stanco, rinunzia, butta via la spada: aveva osato lui, uomo, lottare contro un
dio. E io me ne sono uscito tranquillamente dal palazzo, sono venuto qui da voi, senza preoccuparmi di Penteo. Ma, a quanto mi sembra - sento rumore di calzari
all'interno - Penteo sta per comparire nell'atrio. Cosa avrà da dire, adesso?
Starò a sentirlo senza battere ciglio, anche se arriva sprigionando una rabbia tempestosa. L'uomo saggio sa praticare il controllo di sé.
Mi è successa una cosa terribile: lo straniero lo avevo incatenato poco fa, con
tutte le regole, e ora è fuggito. Ma come?
Quell'individuo è qui? Non è possibile. Come osi farti vedere davanti al palazzo, dopo che sei scappato?
Fermati, càlmati, deponi la furia.
Come hai fatto a scioglierti dalle corde, a arrivare qui?
Te l'avevo detto - o non mi badavi? - che qualcuno sarebbe venuto a
liberarmi.
Qualcuno chi? Tu continui a propinarmi strani discorsi.
Colui che ha creato per gli uomini la vite ricca di grappoli.
Bel titolo di gloria che gli dai. ordino che vengano chiuse tutte le porte delle torri di cinta.
Ma come? Non sai che gli dei passano anche attraverso le mura?
Quante belle cose sai. Ma non quello che dovresti.
Quello che dovrei, lo so sin troppo bene. Ma tu, intanto, ascolta le parole di quell'uomo che sta arrivando dai monti con un bel racconto per te: non ti agitare, io resto qui, non mi muovo.
Penteo, sovrano di Tebe, arrivo ora dal Citerone, il monte che splende di nevi
perenni.
Arrivi dal Citerone. E cosa ti ha indotto a precipitarti qui? Che notizie porti?
Ho visto le Baccanti selvagge, quelle sfrecciate via da Tebe, coi candidi corpi
squassati dall'assillo. E sono venuto per informarti che fanno cose tremende, prodigi allucinanti. Ma prima vorrei sapere se sono libero di esporti cosa è
successo, lassù, o se devo ammainare le vele del discorso. Temo le tue reazioni
improvvise, signore, la tua facile collera, il tuo temperamento troppo regale.
Parla pure: per me, in ogni caso, sei esente da colpe. Non ci si può sdegnare con chi agisce secondo giustizia. Ma quanto più è scandaloso quello che hai da riferire sulle Baccanti, tanto più dura legge applicheremo contro chi, insidiosamente, ha insegnato arti del genere alle donne.
Pascolavo, poco fa, sulle alture le mie greggi, nell'ora in cui il sole manda i
primi raggi e comincia a scaldare la terra. E vedo tre gruppi di donne: il primo lo capeggiava Autonoe, il secondo Agave, tua madre, il terzo Ino. Giacevano tutte
abbandonate al sonno, chi col dorso appoggiato ai rami bassi degli abeti, chi con la testa posata sulle foglie di quercia sparse al suolo, a caso, ma non scompostamente, non come dici tu, ebbre di vino, stordite dalla musica dei flauti, e a caccia di Afrodite, negli angolini del bosco, isolate.
Tua madre, sentendo il muggito delle mie mandrie, lanciò un grido, levandosi in
mezzo alle Baccanti, perché si scuotessero dal sonno. Ed esse, scacciando dagli occhi il profondo torpore, si rizzarono in piedi, in uno spettacolo di compostezza incredibile, vecchie, giovani, e vergini ignare di nozze.
Cominciarono a sciogliersi i capelli sulle spalle, a stringere i lacci allentati delle pelli che indossavano, a farsi cinture, per i velli screziati, con serpenti che ne lambivano le guance. Alcune, tenendo tra le braccia un cerbiatto o dei lupacchiotti selvaggi, gli offrivano il dolce latte: erano da poco madri, avevano abbandonato i figli, e le mammelle erano ancora turgide, altre si inghirlandavano con corone di
edera, di quercia, di smilace fiorita. Una di esse, afferrato il tirso, lo batté sulla pietra e subito erompe una fresca sorgente d'acqua, un'altra pianta il bastone per terra e di là il dio fece sgorgare una polla di vino; Baccanti, prese dal desiderio della candida bevanda, grattavano il suolo colla punta delle dita e
zampillavano fiotti di latte: rivoli di miele squisito stillavano dai tirsi avvolti di edera. Se tu eri con noi, lassù, vedendo queste cose, avresti pregato, invocato il dio che ora insulti.
Ci riuniamo noi, pastori e mandriani: avevamo visto cose incredibili, stupefacenti, volevamo discuterne. E uno di quelli che hanno contatti con la città, esperto nel parlare, chiese a noi tutti: «Uomini che abitate le sacre pendici del monte, perché non cerchiamo di stanare dai Baccanali Agave, la madre di Penteo, e così ci guadagniamo il favore del re?». Le sue parole ci persuasero e ci mettemmo in agguato, al riparo di folti cespugli. All'ora prescritta le Baccanti cominciano a
agitare il tirso per i loro riti; invocavano a una sola voce il figlio di Zeus, Bromio, il dio del grido: l'eccitazione si era trasmessa all'intero bosco, alle belve: non c'era più niente di fermo, tutto si agitava in frenesia.
Agave, nei suoi balzi, mi passa vicino e io scatto fuori per afferrarla, uscendo dal cespuglio dove mi ero nascosto. E Agave gridò: «Mie cagne veloci, questi uomini ci danno la caccia: seguitemi, seguitemi, fate dei vostri tirsi un'arma».
Solo fuggendo riuscimmo ad evitare che ci sbranassero vivi. Ma esse si avventarono sulle mandrie che pascolavano l'erba: e bada, non avevano coltelli in mano. Una agguanta una giovenca colle mammelle gonfie che muggiva, altre si
buttano su gruppi di vacche, ne fanno scempio. Bisognava averlo visto per
crederci. Interi fianchi, zampe dai bifidi zoccoli vengono scagliate qua e là: pezzi di carne sanguinolenta, tra i rami, lasciavano cadere rosse gocce sotto gli abeti.
E i tori, prima violenti, i tori, che hanno la rabbia nelle corna, si abbattevano al suolo, trascinati da torme di donne. Li spolparono sino alle ossa, più veloci, signore, di un battito delle tue ciglia. Poi come uccelli che saettano in aria,
volavano sulle distese della pianura, quelle distese che presso le correnti dell'Asopo producono per i Tebani fertili spighe. Piombano, le Baccanti, su Isia, Eritre, ai piedi del Citerone: come uno sciame di nemici abbattono e devastano
tutto, rapiscono i bambini dalle case, e ciò che si caricavano semplicemente sulle spalle non cadeva sulla nera terra, bronzo o ferro che fosse; fuoco ardeva tra i loro riccioli, ma non bruciava. Gli uomini schiumando d'ira per il saccheggio delle Baccanti, si precipitano alle armi: si assistette allora a una scena paurosa. Le punte delle loro lance non si tinsero di rosso, ma le Baccanti, scagliando i tirsi ferirono e misero in fuga gli uomini, non senza l'aiuto di un dio. E di nuovo correvano là da dove erano venute, alle sorgenti che il dio aveva fatto sgorgare per loro. Si astergevano il sangue dalle mani, i serpenti gli leccavano colla lingua le gocce sulle guance.
Chiunque sia questo dio, accoglilo nella tua città, signore: egli è grande in ogni cosa, e dicono, a quanto sento, che ha dato lui agli uomini la vite che scaccia il dolore: e senza vino non c'è Afrodite, non c'è nessun altro piacere per gli uomini, mai.
Ho paura a parlare con tutta franchezza al sovrano, ma ci provo lo stesso:
Diòniso non è inferiore a nessun altro dio.
La violenza delle Baccanti dilaga vicino a noi come un incendio: ci copre di vergogna agli occhi dei Greci. Non c'è da esitare. Va alla porta di Elettra, raduna tutti gli opliti, i cavalleggeri veloci, i peltasti, gli arcieri, per affrontare le Baccanti. Subire a opera di donne ciò che stiamo subendo passa ogni limite.
Tu non ti lasci convincere, Penteo, non mi badi quando parlo. Ma anche se ricevo
del male da te, ti ripeto lo stesso: non prendere le armi contro il dio, stattene quieto: Bromio non ti permetterà di cacciare le Baccanti dai monti della gioia.
Smettila di farmi la lezione. Sei riuscito a scappare: pensa a conservarti la libertà. o vuoi che ti ricacci in prigione?
Io, mortale, non me la sentirei di recalcitrare con furia al pungolo di un dio.
Meglio offrire un sacrificio.
Lo offrirò, il sacrificio: scateno su per le balze del Citerone un bel massacro
di donne: se lo sono meritato.
Fuggirete tutti: sarà un'ignominia: gente protetta da scudi di bronzo ricacciata
indietro dai tirsi delle Baccanti.
Ci siamo trovati a lottare con questo straniero impossibile: non tace mai né quando è sopraffatto, né quando attacca.
Amico mio, un modo per aggiustare le cose ci sarebbe.
E come? Trasformandomi in schiavo delle mie schiave?
Ti condurrò io le donne qui, senza che tu ricorra alle armi.
Ahi, quest'uomo mi sta tendendo una trappola.
Quale trappola? Io ti voglio salvare, con le mie arti.
C'è un'intesa tra voi, per perpetuare i baccanali.
L'intesa io ce l'ho, è vero, ma col dio.
Portatemi l'armatura, e tu smettila di parlare.
Basta. Allora non le vuoi vedere, le donne, tutte insieme, sul monte?
Oh se lo voglio, e sono pronto a pagare oro, molto oro.
Come mai ti è piombata addosso tutta questa frenesia?
Ci patirò, ma voglio vederle ubriache.
E ti piacerebbe vedere cose per cui patisci?
Sì, ma le vedrei in silenzio, da dietro gli abeti.
Ma ti staneranno, anche se arrivi di soppiatto.
No, di soppiatto no: in questo hai ragione.
Ti devo fare da guida, vogliamo avviarci?
Sbrigati, non perdiamo altro tempo.
Infìlati un peplo di lino.
Cosa? Devo camuffarmi da donna?
Preferisci rischiare la pelle, se si accorgono, lassù, che sei un maschio?
Hai di nuovo ragione: la sai lunga, tu.
Diòniso mi ha istruito a puntino.
Come faccio a mettere in pratica i tuoi consigli?
Entriamo in casa: penserò io a vestirti.
Con un abito femminile? Mi vergogno.
Dunque, non ti interessa più vedere le Menadi?
Spiegami come intendi acconciarmi.
Intanto, ti scioglierò i capelli, che porti raccolti sul capo.
E il secondo tratto del mio abbigliamento?
Un peplo, lungo sino ai piedi, e un nastro in testa.
Il tutto, completato con cosa?
Un tirso da impugnare, e una screziata pelle di cerbiatto.
Non me la sento di vestirmi da donna.
Dunque, verserai sangue, dando battaglia alle Baccanti.
Giusto: prima bisogna partire in esplorazione.
È meno sciocco che andare a caccia di un male con un altro male.
Ma come faccio a attraversare la città di Cadmo senza che mi vedano?
Passeremo per strade deserte; ti guiderò io.
Meglio qualunque cosa che venir schernito dalle Baccanti. Entriamo in casa, e
deciderò sul da farsi.
Come ti pare: io da parte mia sono bello e pronto.
Allora entrerei nella reggia: e poi ne uscirò armato da capo a piedi o attenendomi, invece, ai tuoi consigli.
Donne, l'uomo si getta nella rete, verrà dalle Baccanti, e sconterà questa colpa, colla morte. Diòniso, ora tocca a te: non sei lontano. Lo puniremo. Prima, però, fallo uscire di cervello, iniettagli una confusa follia, perché se ragiona non vorrà indossare, mai, un abito femminile. Ma, fuorviato di senno, se lo metterà. Voglio esporlo al riso dei Tebani, condurlo attraverso la città camuffato da donna, dopo quelle minacce che lo rendevano terribile. Ma vado a preparare per Penteo l'abbigliamento con cui scenderà all'Ade, scannato dalle mani di sua madre, e saprà chi è Diòniso, figlio di Zeus, Dio in tutto e per tutto, tremendo e dolcissimo per i mortali.
str.
Mi accadrà mai di danzare
a piedi nudi, nelle veglie notturne,
inebriata di Bacco, roteando la testa
nell'aria umida di rugiada?
Come la cerbiatta che gioca
nei verdi piaceri del prato,
scampata al varco di fitte reti,
a inseguitori feroci:
ma grida il cacciatore, tesa è la corsa dei cani,
rapida come tempesta, tormentosa è la fuga,
balza la cerbiatta per la pianura
lungo il fiume, e finalmente gioisce
dell'assenza dell'uomo, dei germogli
di una ombrosa foresta.
La saggezza ideale! È calcare più forte
il piede sul collo dei nemici?
È questo il dono più bello dei celesti
ai mortali? Il bello
è prezioso, sempre.
ant.
La forza degli dei! Tardi si muove,
ma è sicura, colpisce chi onora
la vanagloria, chi non esalta
la vita dei superni e ha per compagna
la follia. Nascondono gli dei,
astuti, il lungo passo del tempo,
perseguono il sacrilego.
Non è bene conoscere e operare
oltre la parte assegnata.
Costa ben poco pensare che dio,
chiunque egli sia, è potente
e che eterne, ancorate a natura
sono le norme scandite dai secoli.
La saggezza ideale! È calcare più forte
il piede sul collo dei nemici?
È questo il dono più bello dei celesti
ai mortali? Il bello
è prezioso, sempre.
Felicità è sfuggire alla tempesta
del mare, raggiungere il porto,
felicità è trovarsi oltre il dolore,
vincere gli altri, comunque,
in ricchezza, in potenza. Infinite
sono le speranze come infiniti gli uomini:
si compiono o svaniscono. Ma io
giudico fortunata la vita
di chi è felice giorno dopo giorno.
Tu che sei ansioso di vedere quello che non si deve vedere, e cerchi quello che
non si deve cercare, dico a te, Penteo, esci dalla reggia, lasciati guardare nel tuo abbigliamento di donna, di Menade delirante, di spia di tua madre e del suo
stuolo. Perfetto: ti si direbbe una delle figlie di Cadmo, tale e quale.
Mi pare di vedere due soli, e Tebe, la città delle sette porte, mi sembra di vederla doppia. E tu davanti a me, tu che mi guidi, mi sembri un toro, ti sono cresciute sulla testa corna di toro. Ma una volta, eri una bestia selvaggia? Perché adesso sei divenuto proprio un toro.
Dio è con noi: prima era ostile, ora è un alleato; ora sì che vedi quello che devi vedere.
Come ti sembra che stia? Ce l'ho il portamento di Ino, o magari di Agave, mia
madre?
Vedendo te, mi sembra di vedere una di loro. Ma guarda che ti è andato un
ricciolo di traverso, non è più come te lo avevo sistemato io sotto il nastro.
Mi è andato fuori posto dentro la reggia, quando scuotevo i capelli avanti e
indietro, nella danza bacchica.
Permettimi di riaggiustartelo: a noi compete essere tuoi servi. Tieni su la testa.
Ecco, fammi bello: sono nelle tue mani.
La cintura ti si è allentata e le pieghe del peplo non cadono diritte sulle caviglie.
Pare anche a me, ma solo a destra: a sinistra la veste piomba bene sopra il tallone.
Quando ti accorgerai che le Baccanti non sono le svergognate che credevi, mi
riterrai il migliore dei tuoi amici.
Per assomigliare di più a una Baccante, devo impugnare il tirso colla destra o colla sinistra?
Colla destra, e contemporaneamente alza il piede destro: mi rallegro che hai cambiato modo di ragionare.
E pensi che potrei sostenere sulle spalle il Citerone, con le sue convalli e le sue Baccanti?
Puoi, se lo desideri: prima la tua mente era offuscata, ora il tuo cervello è come bisogna che sia.
Portiamo delle leve? o devo sollevarlo con le mani il Citerone e lasciarmelo
scivolare sulle braccia o sulle spalle?
Non vorrai distruggere le dimore delle Ninfe, le sedi di Pan, dove risuonano i suoi flauti.
Hai detto bene: le donne non vanno piegate colla forza: mi nasconderò dietro gli
abeti.
Ti nasconderai, come deve farlo uno che va subdolamente a spiare le Baccanti.
Secondo me, ora sono nei cespugli, come degli uccelli presi nelle dolcissime reti d'amore.
E non è per questo che ti spingi a esplorare? Probabilmente le catturerai, se non saranno prima loro a catturare te.
Aprimi la strada attraverso Tebe: sono l'unico dei Tebani che osa fare queste cose.
L'unico che porta pena per questa città, l'unico: per questo, ti attendono le prove che devi affrontare. Seguimi: io sono la tua scorta, la tua salvezza: un altro ti ricondurrà di laggiù.
La donna che mi ha generato.
Sarai un esempio per tutti.
È per questo che vado.
Ma al ritorno ti porteranno...
Un trattamento raffinato.
le mani di tua madre.
Mi preannunzi delizie.
Straordinarie delizie.
In ogni caso, quelle che merito.
Sei un essere terribile, terribile e terribili prove ti attendono. Troverai una fama che si alza sino al cielo. Tendi le tue mani, Agave, e voi, figlie di Cadmo, nate da uno stesso seme: io conduco questo giovane a un grande confronto: il vincitore sarà Bromio, sarò io. Il resto, lo diranno i fatti.
str.
Andate, cagne veloci della Follia, salite sul monte
dove le figlie di Cadmo celebrano Bacco,
scatenatele contro chi
travestito da donna spia le Menadi, rabbioso.
La madre per prima
lo vedrà guardare di nascosto
da dietro una nuda roccia o in cima a un albero
e griderà alle Baccanti:
chi ha raggiunto la vetta del monte, del monte
per spiare le figlie di Cadmo che corrono sul monte?
Chi è? Chi è? Chi lo ha partorito?
Non ha certo sangue di donna,
ma di leonessa,
è della razza delle Gorgoni libiche.
Venga armata di spada, rifulga la giustizia,
trafigga da parte a parte la gola
all'ateo, all'iniquo, al sacrilego
figlio di Echione, il nato dalla terra.
ant.
Con empio desiderio e furia scellerata
egli avanza contro di te, Bacco, muove contro
le feste di tua madre con demente sentire, con delirante audacia;
pretende di domare l'invincibile.
Ma una morte che non cede ai raggiri
insegna la prudenza verso dio.
Sicura dal dolore è la vita
di chi sta nei suoi limiti d'uomo.
Non invidio un sapere vano,
non lo cerco: a me danno gioia
le cose grandi, limpide, tese sempre al bene,
condurre una vita pura notte e giorno,
rendere onore agli dei, respingere
ogni norma che offenda giustizia.
Venga armata di spada, rifulga la giustizia,
trafigga da parte a parte la gola
all'ateo, all'iniquo, al sacrilego
figlio di Echione, il nato dalla terra.
ep.
Rivélati, Diòniso, mostrati come un toro o un drago
dalle cento teste o un rutilante leone,
e col tuo volto sorridente
avvolgi in una rete di morte
il cacciatore delle Menadi
caduto preda della mandria.
Agli occhi della Grecia, eri felice, un tempo, reggia del vecchio di Sidone,
l'uomo che seminò la sua messe nella terra del serpente, del drago. Ma ora, io, che sono un servo, piango su di te.
Cosa c'è? Che notizie ci porti delle Baccanti?
È morto il figlio di Echione, Penteo.
Bromio, signore, tu ti riveli un grande dio.
Cosa dici? Che parole tiri fuori, donna? Provi gioia per le sventure dei miei
padroni?
Grido la mia gioia, io straniera, con canti barbari: non tremo più, non mi fanno più paura le catene.
Credi Tebe così pove ra di uomini...
Non Tebe, no, ma Diòniso ha potere su di me.
Capisco, donne: ma non è bello rallegrarsi delle sventure che succedono.
Raccontami, spiegami come è morto quell'individuo ignobile, quell'artefice di empietà.
Lasciate le ultime case di Tebe, guadammo l'Asopo e ci inoltriamo su per le rocce del Citerone, Penteo, io, che seguivo il mio sovrano, e davanti lo straniero che apriva la marcia. Ci fermiamo in una valle verdeggiante, senza parlare, badando a non far rumore: volevamo vedere senza essere visti. Era una valle scoscesa, percorsa da torrenti, ombreggiata da pini. Là sedevano le Baccanti, immerse in piacevoli fatiche. Alcune incoronavano con nuovi ciuffi d'edera un tirso morto, altre cantavano, a voci alterne, un inno a Bacco: sembravano puledre affrancate dal loro giogo istoriato. Ma Penteo, l'infelice, non scorgeva questa massa di donne e
disse: «Straniero, da qui dove siamo adesso i miei occhi non colgono le bastarde
Menadi: ma se salgo, dalle rocce, in cima a un abete, non mi sfuggirebbero le loro immonde azioni». E allora assisto a un impressionante miracolo dello straniero. Afferra il ramo più alto di un abete, proprio sulla sommità, lo piega lentamente, lo flette sino alla nera terra; si curvava come un arco, come il legno che il tornio ruotando veloce foggia a forma di ruota. Lo straniero con le mani tira giù sino al suolo quel tronco selvatico: non fu, certo, impresa da mortale. Sistema Penteo sui rami, lentamente lascia andare l'abete, non di scatto, per non disarcionare Penteo: dritto si staglia contro il cielo l'albero, col mio padrone in cima. Le vide, allora, le Baccanti, o piuttosto, furono esse a vedere lui.
Quando ormai lo si poteva distinguere lassù, e lo straniero era sparito di colpo, nell'etere echeggiò una voce, la voce - credo - di Diòniso: «o giovani, ecco vi ho portato l'uomo che si fa beffe di me e del mio culto: a voi punirlo». Mentre diceva così, il cielo e la terra si copersero del bagliore di un fuoco terribile: l'aria si fece silenziosa, tacquero nel fitto bosco le foglie, non si udiva ansito di belva. Alle orecchie delle Baccanti giunse indistinto il grido: si drizzarono in piedi, si guardavano intorno. Di nuovo echeggiò la voce di Bacco, chiari ne intesero gli ordini ora le figlie di Cadmo: balzando impetuose nella corsa saettarono come
colombe, Agave, la madre, con le sue sorelle dello stesso seme, e le Baccanti
tutte: saltavano oltre dirupi e torrenti invasate dallo spirito del dio. Quando scorsero il mio padrone appollaiato sull'abete, cominciarono a gettargli contro dei
sassi con estrema violenza, dall'alto di una roccia, una sorta di torre d'assedio, e lo tempestavano con rami d'abete, lanciavano tirsi, attraverso l'aria, contro quel povero bersaglio di Penteo. Ma senza colpirlo. Si accanivano: e l'infelice era fuori della portata dei loro tiri, ma privo di scampo, ormai. Spezzano poi rami di quercia, cercando di svellere l'abete dalle radici, con quelle leve non di ferro. Ma anche così i loro sforzi caddero nel vuoto. Disse allora Ag ave: «Perché non ci disponiamo tutte intorno, e afferriamo il tronco per catturare la belva che c'è salita sopra? Non deve raccontare in giro i nostri riti segreti». Mille mani insieme ghermirono l'abete, e lo divelsero: Penteo sbalzato dal ramo precipita al suolo dall'alto, gridando di terrore: aveva capito di essere vicino alla fine.
La madre gli piomba addosso; come sacerdotessa fu lei a dare inizio allo scempio. Penteo si strappò il nastro dai capelli, perché la povera Agave riconoscesse suo figlio, non lo ammazzasse. Toccandole le guance, la supplicava: «Madre, sono tuo figlio, Penteo, il figlio che hai partorito nella reggia di Echione, abbi pietà, madre, non uccidere tuo figlio per punire le mie colpe».
Colla bava alla bocca, roteando le pupille stravolte, incapace di recuperare la
ragione - il dio la possedeva - Agave non ascolta suo figlio. Agguanta il braccio sinistro di quell'infelice, gli pianta un piede contro le costole, e tira, gli asporta
una spalla, non per forza propria, il dio le aveva infuso nelle mani tutto quel
vigore. E Ino completa l'opera dall'altro fianco, gli squarta le carni, gli si buttano addosso Autonoe e la massa delle Baccanti. L'aria si riempì di clamori; Penteo
gridò finché ebbe respiro, le Baccanti celebravano con urla il trionfo. E una
brandiva un braccio di Penteo, l'altra un piede con il calzare, i fianchi erano stati spolpati, a strappi: con le mani insanguinate, le Baccanti giocavano a palla con
i resti di Penteo.
I pezzi del cadavere giacciono disseminati dappertutto: sotto le scarpate, nel
fitto profondo del bosco: non sarà facile rintracciarli. Della misera testa di Penteo si è impadronita la madre, l'ha conficcata in cima a un tirso, la ostenta giù per
il Citerone come la testa di un leone di montagna. Ha lasciato le sorelle in mezzo ai cori delle Baccanti, sta per entrare in città, dentro le mura, felice per la sua preda sciagurata, invocando Bacco, il suo compagno di battuta, che ha collaborato alla cattura, il dio della vittoria, e gli porta una vittoria gonfia di lacrime. Ma io mi allontano da questa sventura prima che Agave arrivi alla reggia. Avere senno, venerare gli dei, ecco la cosa più bella: la sapienza, credo, più alta e utile per i mortali che ne fanno uso.
Intrecciamo danze in onore di Bacco, si acclami la sventura
di Penteo, stirpe del drago.
Ha indossato una veste da donna,
ha impugnato il bel tirso, una fedele
bacchetta magica di morte, di morte per lui:
un toro gli ha aperto la strada della sventura.
Baccanti, figlie di Cadmo,
avete trasformato uno splendido inno
di trionfo in lutto e dolore.
Magnifica vittoria
cingere il capo del figlio
con la mano lorda di sangue!
Ma ecco la madre di Penteo: si dirige verso la reggia con occhi stravolti: un
benvenuto al corteo del dio della gioia!
str.
Baccanti d'Asia!
Cosa vuoi da me?
Portiamo a palazzo dai monti l'edera appena colta, una preda di caccia
fortunata.
Lo vedo e ti accoglierò in mezzo a noi.
Senza reti ho catturato questo cucciolo di leone: lo vedi?
Lontano da qui?
Il Citerone...
Sì...
Lo ha condannato a morte.
Chi lo ha colpito per prima?
Io ho avuto l'onore, io che nei tiasi chiamano Agave, la beata.
E poi?
Le figlie di...
Di?...
Le figlie di Cadmo. Dopo di me, dopo di me han messo le mani su questa belva: la caccia ha avuto buon esito. Vi invito al banchetto.
ant.
Quale banchetto, disgraziata?
È un torello giovane, da poco gli è spuntata la lanugine sulle guance, sotto il
morbido pelame della testa.
Sì, per il suo pelame folto sembra un animale feroce.
Bacco, il saggio cacciatore, ha saggiamente aizzato contro questa fiera le
Menadi.
È un cacciatore di prede, il mio signore.
È una lode?
È una lode.
Presto anche i Cadmei...
E tuo figlio Penteo...
Loderà la madre che ha catturato questo bottino, un leone.
Strano bottino.
Stranamente preso.
Sei contenta?
Sono felice; ho ottenuto con questa caccia grandi cose, grandi, e splendide.
Povera donna, mostra ai cittadini la preda trionfale con cui sei arrivata qui.
Abitanti della città di Tebe, bella di torri, accorrete a vedere la preda catturata da noi, le figlie di Cadmo, non con i giavellotti perfezionati dei Tessali, non con le reti, ma con la forza di queste pallide mani. E poi c'è chi si gloria di essere bravo cacciatore, perché compra dai fabbricanti delle armi inutili! Con le mani nude noi l'abbiamo catturata questa belva, e l'abbiamo squartata.
Dov'è il mio vecchio padre? Che si avvicini. E mio figlio Penteo, dov'è? Arrivi
con delle scale, le appoggi ai muri del palazzo: c'è da inchiodare sul fregio questo cranio di leone, il mio bottino, osservatelo.
Seguitemi, con questo triste carico di Penteo, seguitemi, servi, davanti alla casa: a fatica, dopo tanto cercare, ne porto qui il cadavere. L'ho ritrovato nei crepacci del Citerone, dilaniato, ne ho ricomposto i pezzi dispersi, non ce n'era uno accanto all'altro: era difficile rintracciarli nella foresta. Qualcuno mi ha riferito la follia delle mie figlie: avevo lasciato le Baccanti, ero appena rientrato in città, tra le mura, col vecchio Tiresia. Allora mi sono di nuovo incamminato verso il monte, e ne riporto giù il ragazzo, massacrato dalle Menadi. Ho visto Autonoe, la moglie di Aristeo, la madre di Atteone, e con lei Ino, entrambe ancora in preda all'assillo
furioso, infelici donne, tra i querceti; qualcuno mi ha riferito che Agave, con delirante passo di danza, si era diretta qui; il messaggio era vero, la vedo; è una scena, per me, orribile.
Padre, puoi vantarti davvero di avere messo al mondo le figlie migliori che ci siano in assoluto. Parlo di tutte, ma in particolare di me, che ho abbandonato spola e telaio per imprese più grandi, per la caccia alle belve, a mani nude. Ecco il mio trofeo, e lo porto tra le braccia, come vedi; deve essere appeso al palazzo: te lo consegno, padre. Rallègrati per il mio successo, invita gli amici a banchetto. Fortunato sei, fortunato per le nostre gloriose gesta.
o dolore senza misura! Non posso guardare lo scempio compiuto dalle vostre
povere mani. Bella la vittima che hai immolato agli dei, e ora ci inviti al banchetto, Tebe e me. Che sventura, la tua e la mia. Il dio che è nato in queste case, Bromio, era giusto che ci punisse: ma non così, così è troppo.
Come sono noiosi i vecchi, tanto scorbutici, sempre. Vorrei tanto che mio figlio
diventasse un bravo cacciatore, sulle orme di sua madre, quando braccherà le belve coi giovani Tebani. Ma lui è bravo solo a rifarsela cogli dei. Tocca a te,
padre, dargli buoni consigli. Perché non me lo fate venire qui? Deve assistere
alla mia felicità.
Quando vi tornerà la ragione, patirete il patibile per quello che avete fatto; ma se rimarrete sempre così come adesso, non vi sembrerà di essere infelici, anche se lo siete.
Cosa c'è che non va, cosa ti da fastidio?
Ti prego, alza gli occhi, un attimo, verso il cielo.
D'accordo, perché vuoi che lo faccia?
Ti sembra lo stesso, o ti sembra diverso?
È più luminoso, più limpido.
E sei ancora tutta sottosopra, nel tuo animo?
Non capisco cosa dici. Ma la mia testa si va schiarendo, qualcosa è cambiato nella mia mente.
Sei in grado di ascoltarmi e rispondermi con chiarezza?
Sì, le cose che abbiamo detto prima le ho scordate, padre.
Dimmi, quando hai preso marito, in che casa sei entrata?
Mi hai dato in moglie a Echione, della stirpe, raccontano, del drago.
E hai avuto un figlio da Echione?
Sì, Penteo, nato dall'unione mia e di suo padre.
E la testa che tieni fra le braccia di chi è?
Di un leone, me l'hanno assicurato quelle che gli davano la caccia.
Guardalo bene: non ti costerà un grande sforzo.
Dio mio, cosa vedo? Che cosa ho tra le mani?
osservalo per capire meglio.
Dio, che rovina. Un tremendo dolore io vedo.
E ti sembra che assomigli a un leone?
No, tra le mie mani io, sventurata, tengo la testa di Penteo.
Tu lo riconosci, ora, ma io prima ho pianto su di lui.
Chi l'ha ucciso? Come è capitata la sua testa fra le mie mani?
Triste verità, apparsa quando ormai è troppo tardi.
Parla, il cuore mi si sta spaccando per quello che mi aspetto.
L'avete ucciso tu e le tue sorelle.
Ma dove è morto? In casa? o fuori?
Nello stesso posto dove un giorno sbranarono Atteone le sue cagne.
Ma cosa era andato a fare, quell'infelice, sul Citerone?
Era venuto per deridere il dio e i tuoi Baccanali.
E noi, come ci siamo trovate sul Citerone?
Eravate impazzite, tutta Tebe era in preda al delirio bacchico.
Diòniso ci ha distrutto, ora lo capisco.
Era stato offeso a sangue da voi, non lo credevate un dio.
Ma dov'è, padre, il corpo di mio figlio?
Con molta fatica l'ho ritrovato e l'ho riportato con me.
Ma è ancora tutto intero il corpo, è intatto? E Penteo, che parte ha avuto nella
mia demenza?
Si rivelò uguale a voi; non rese onore al dio. E allora il dio ha accomunato tutti in una stessa condanna, voi e Penteo, ha distrutto la mia famiglia e me. Io, che non ho generato nessun maschio, mi vedo qui sotto gli occhi, morto nel modo più
orrendo e infame, questo frutto del tuo grembo: a lui guardava la reggia: tu eri, figlio, il sostegno del mio palazzo, tu, nato da mia figlia, e sapevi incutere rispetto alla città. Nessuno avrebbe osato offendere me vecchio, mentre eri vivo: lo avresti punito come meritava. E adesso io, Cadmo il grande, io che ho seminato
la stirpe del drago e mietuto la messe più bella, sarò spogliato dei miei onori, espulso dalla mia casa. E tu, la creatura a me più cara al mondo - sei morto, ma
sempre resterai, figlio, la creatura a me più cara al mondo - non carezzerai più
la mia barba colla tua mano, non mi abbraccerai più chiamandomi «il padre di tua madre», chiedendomi: «Qualcuno ti fa torto, vecchio, ti umilia? Qualcuno ti infastidisce, ti fa soffrire? Dimmelo, penserò io a farla pagare a chi è ingiusto con te, padre». ora io sono finito, su te è scesa la sventura, e sulle sorelle di tua madre; per tua madre resta solo la pietà. Chi si sente superiore agli dei, guardi
questo cadavere e crederà che essi esistono.
Patisco per te, Cadmo; ma il figlio di tua figlia ha avuto ciò che si era guadagnato, anche se tu ne soffri.
Padre, vedi come tutto è cambiato per me. Se non avessi macchiato così le mie
mani... Come riuscirò, sventurata, a stringere con delicatezza al seno mio figlio? Piangere su di lui, abbracciarne i resti, uno per uno, coprire di baci le carni che avevo nutrito. Coraggio, vecchio. La testa di questo infelice rimettila sul tronco, ricomponiamo per bene quel corpo che era tanto forte. o viso carissimo, guancia tanto giovane, ecco, distendo questo velo su di voi, sulle membra straziate, che stillano sangue.
Ha peccato, accecato da un furore geloso, contro un dio benevolo: si è spinto a
gettarmi in catene, a rovesciare ingiurie su me. Perciò è morto per mano di chi mai avrebbe dovuto farlo. Ha avuto questa sorte, degna di lui. Quanto ai Tebani,
non vi nasconderò cosa li aspetta. Dovranno lasciare Tebe, cedere di fronte ai
barbari, perverranno in molte città, col giogo della schiavitù sul collo, osarono dichiarare, con discorsi falsi e vergognosi, che io ero figlio di un mortale. E non
è stato l'unico oltraggio nei miei confronti. E anche tu, l'assassina, e le tue sorelle dovrete lasciare Tebe, scontare il vostro empio delitto; non rivedrete più la patria, è sacrilego che gli uccisori restino accanto alla tomba degli uccisi. E ora, Cadmo, ti preciserò i mali che dovrai subire tu. Ti trasformerai in un drago, e tua moglie Armonia, che tu, un mortale, hai avuto in moglie dal dio Ares, suo padre, tramutata in bestia, prenderà l'aspetto di una serpe. Guiderai un carro tirato da buoi, così dice l'oracolo di Zeus, con Armonia al tuo fianco, capeggerai orde barbariche. Metterai a ferro e a fuoco molte città, con uno sterminato esercito: ma esso conoscerà una triste via di ritorno dopo il saccheggio del santuario di Apollo. Tu e Armonia sarete salvati dal dio Ares, che vi destina alla terra dei beati.
Questo proclamo io, Diòniso, figlio, non di un uomo, ma di Zeus. Potevate essere
saggi, ma non lo avete voluto: ora sareste felici, col figlio di Zeus vostro alleato.
Diòniso, noi siamo qui supplici, noi che ti abbiamo offeso...
Troppo tardi avete imparato a conoscere chi sono: non lo avete fatto quando era
necessario.
Lo ammettiamo: ma tu troppo ci perseguiti.
Si capisce. Io, un dio, sono stato oltraggiato da voi.
Non è bello per gli dei agire come i mortali, nell'ira.
Mio padre Zeus ha già deciso tutto questo da tempo.
Vecchio, la sentenza è emessa: esilio, amaro esilio.
E allora, perché ostinarsi contro l'ineluttabile?
Figlia, su noi è piombata una spaventosa sventura: su te, sulle tue povere sorelle, su di me. Io, vecchio, devo andarmene a vivere tra i barbari, da straniero: e l'oracolo decreta che guiderò contro la Grecia un'orda, un'accozzaglia di barbari. E mia moglie Armonia, la figlia di Ares, divenuta una serpe selvaggia, la condurrò
io, trasformato in drago, contro gli altari e le tombe dei Greci, aprendo il cammino alle lance. I mali, per me, non cesseranno mai. Non avrò pace neppure varcato l'Acheronte.
Padre, ti perdo, l'esilio mi separa da te.
Perché, povera figlia, getti le braccia al collo di un essere inutile, come me, un vecchio cigno grigio?
Cacciata dalla mia patria, dove trovo rifugio?
Non lo so, figlia; tuo padre ti serve a ben poco.
Addio, reggia, addio, città paterna: vi lascio, stanze nuziali, per un triste esilio.
Va, ora, figlia.
Io mi angustio per te, padre.
E io, figlia, sono gonfio di lacrime per te, per le tue sorelle.
Ha infierito, Diòniso signore, brutalmente, contro le tue case.
Mi avevate offeso in modo ignominioso, rifiutando onori al mio nome, in Tebe.
Stammi bene, padre.
Stammi bene, povera figlia. Ma è un augurio così improbabile.
Conducetemi, vi prego, dalle mie sorelle: saranno le mie desolate compagne di
esilio. Voglio andare dove non mi veda più il turpe monte, il Citerone, e dove i miei occhi non possano vederlo, dove non esista neanche memoria del tirso; altre Baccanti se lo tengano caro.
Molti sono gli aspetti del divino, molte le risoluzioni inattese dei celesti; quello che si credeva non si è compiuto, un dio trova la strada per l'impossibile e questa vicenda si è suggellata così.