La scena è a Trezene, nello sfondo la reggia di Pitteo, davanti alla quale sorgono le statue di Artemide e di Afrodite.
(Apparendo sul fastigio del palazzo)
Dea possente e non ignota fra i mortali e nel cielo, Cipride io sono. Di quanti abitano fra il Ponto e i confini dell'Atlante e vedono la luce del sole, tengo in conto quelli che venerano il mio potere, ma abbatto quanti sono orgogliosi verso di me. Anche nella stirpe degli dèi questo è insito: essi gioiscono di ricevere onori dagli uomini. E dimostrerò subito la verità di queste parole.
Ippolito, il figlio di Teseo e prole dell'Amazzone, alunno del virtuoso Pitteo, unico fra i cittadini di questa terra trezenia, afferma che Io sono per natura la peggiore delle divinità, e rifiuta l'amore e fugge le nozze. E la sorella di Febo, Artemide, figlia di Zeus, egli onora e stima la più grande delle divinità. E sempre insieme con la vergine, per la verde selva stermina le fiere della terra con cagne veloci, in una familiarità più grande che a mortale convenga. Io non ne sono gelosa: e perché mai dovrei? Ma delle sue Colpe verso di me io punirò Ippolito in questo giorno: e avendo Da tempo preparato il più, non mi occorrerà gran fatica. Allorché dalle case di Pitteo si recò nella terra di Pandione per assistere alla celebrazione dei sacri misteri, Fedra la nobile sposa di suo padre, secondo i miei disegni, nel vederlo fu presa nel cuore da terribile amore.
E prima di venire in questa terra trezenia, ha edificato sulla rupe sacra a Pallade, di fronte a questa nostra terra, un tempio in onore di Cipride, amando un suo manifesto amore: e lo denominò da Ippolito per fondare in avvenire il culto della dea. E da quando Teseo, lasciata la terra cecropia, andò in esilio per la contaminazione del sangue dei Pallantidi e giunse per nave a questa terra con sua moglie, accettando di essere bandito dalla città per un anno, da allora, trafitta dal pungolo d'amore, essa piange e si strugge in silenzio: e nessuno dei familiari conosce il suo male. Ma questo amore non deve finire così: rivelerò la cosa a Teseo, e sarà manifesta. E il padre ucciderà questo giovane, a noi nemico, con le imprecazioni che Poseidon signore del mare concesse a Teseo in dono, che per tre volte non avrebbe pregato invano il dio. Anche lei, Fedra, pur nobilmente, perirà tuttavia.
E io non rinunzierò alla sua rovina per la pena che i nemici mi debbono a mia soddisfazione. Ma ecco, vedo qui Ippolito, il figlio di Teseo, che arriva, lasciate le fatiche della caccia: e io me ne andrò via da questi luoghi. Vasto stuolo di servi lo segue con festose grida, e rende con inni onore ad Artemide. E non sa che le porte di Ade sono aperte e che vede per l'ultima volta questa luce!
(La dea sparisce; da sinistra entra Ippolito, una corona
nelle mani: lo seguono i servi con una muta di cani.)
Seguitemi,seguitemi, cantando
Artemide celeste
Figlia di Zeus, cui siamo cari:
Signora, signora santissima,
prole di Zeus,
salve, salve, Artemide,
figlia di Latona e di Zeus,
bellissima fra le vergini,
che abiti nell'ampio cielo
la dimora del nobile padre,
l'aurea casa di Zeus!
Salve, o bellissima,
bellissima fra le vergini
dell'Olimpo, Artemide!
A te, signora, porto questa ritorta corona, che ho composto io stesso da intatto prato, dove né pastore osa pascolare il gregge, né mai giunse ferro, ma solo l'ape trasvola sull'intonso prato a primavera. Verecondia lo irriga con fluviali rugiade: e a coloro che non per averlo appreso ma per natura sortirono saggezza in ogni cosa, a questi è lecito cogliere fiori, ma non ai malvagi.
E tu, diletta signora, questo serto per l'aurea chioma accogli, da mano pia. A me solo fra i mortali, invero, è concesso questo privilegio: e con te vivo insieme e ti ricambio di parole ascoltando la tua voce, pur se non vedo il tuo volto. Che io possa girare intorno all'ultima meta come ho cominciato la vita!
(Uscendo dal palazzo)
Signore, poiché solo gli dèi conviene chiamare padroni, vorresti accogliere qualcosa da me, se ti consiglio bene?
Ma certo: altrimenti non parremmo esseri ragionevoli.
Sai dunque qual costume ha forza fra i mortali?
No: ma riguardo a che cosa me lo domandi?
Odiare la superbia e ciò che non a tutti è gradito.
Si certo. E quale uomo superbo non è odioso?
E invece, non vi è benevolenza per chi è affabile?
Moltissima invero, e vantaggio con poca fatica.
E non pensi sia lo stesso anche fra gli dèi?
Se è vero che noi mortali abbiamo gli stessi costumi degli dèi.
E perché, allora, tu non invochi una divinità veneranda?
E quale? Bada che la tua bocca non sbagli!
Costei, Cipride, che sta presso la tua porta.
Di lontano la saluto, io che sono casto.
Eppure è una divinità veneranda e insigne fra i mortali.
Nessun dio venerato di notte mi piace.
Conviene, o figlio, rendere onore agli dèi!
Fra gli dèi come fra gli uomini, ognuno ha i suoi preferiti.
Possa tu essere felice, avendo tutto il senno che occorre!
(Rivolto ai compagni)
Andate, compagni; recatevi nel palazzo e pensate al cibo: dopo la caccia dà gioia una mensa ricolma. E bisogna anche strigliare i cavalli: poi, sazio di cibo, li aggiogherò al carro per allenarli convenientemente. E alla tua Cipride, tanti saluti da parte mia!
(Entrano tutti nel palazzo.)
(Volgendosi alla statua di Afrodite)
Ma noi - non bisogna imitare i giovani che pensano a questo modo - , come conviene esprimersi a servi, leveremo preghiere al tuo simulacro, Cipride signora! Bisogna perdonare se qualcuno, con cuore impetuoso per giovinezza, pronunzia parole folli: fa' conto di non averlo udito. Gli dèi devono essere più saggi dei mortali.
C'è una rupe, dicono
Stillante acqua d'Oceano,
che versa dalle balze una effusa fonte
cui attingono con le urne.
Ivi era una mia amica,
che le vesti purpuree lavava
nell'acqua del fiume
e le poneva sulla pietra
calda di Sole:
di là prima mi venne
notizia della mia signora.
Consunto il corpo, essa giace in casa
Sul letto del suo morbo
E lievi veli
ombrano il biondo capo.
E sento che da due giorni
La divina bocca rifiuta
Il frutto di Demetra
e puro ne tiene il corpo;
e infelice essa brama,
in occulta sofferenza,
approdare al termine di morte. Non forse, o figlia, posseduta da un nume,
da Ecate, o da Pan o dai Coribanti
venerati o dalla Madre montana, tu vaneggi?
O ti struggi per alcuna
Colpa contro Dittinna signora delle fiere,
empia per sacrifici non offerti?
Anche attraverso le acque
Essa incede, e oltre la terra,
sui vortici salsi del mare.
O forse il tuo nobile sposo,
il duce degli Eretteidi, un qualche segreto amplesso
diletta nelle case, lungi dal tuo talamo?
Oppure un navigante,
veleggiando da Creta,
a questo porto molto ospitale mosse
recando voce alla regina,
ed essa sul suo letto di dolore,
per gli affanni, è come legata nell'anima?
Con la difficile natura delle donne
Dolorosa infelice fralezza
Suole coabitare,
di doglie e di delirio.
Attraverso il mio grembo balzò una volta quest'aura
E invocai Artemide urania, signora degli archi,
protettrice dei parti,
che molto invocata
sempre a me viene, con gli altri dèi.
Ma ecco, davanti alle porte, l'anziana nutrice,
che fuor dal palazzo la accompagna:
oscuro nembo cresce sulle sue ciglia.
E l'animo brama di conoscere
Che cosa mai ha distrutto il corpo della regina
Mutando il suo aspetto.
(Dal palazzo esce la nutrice che sorregge Fedra; seguono le ancelle, portando un lettuccio sul quale adagiano la regina.)
O sventure dei mortali, o morbi odiosi!
Che cosa devo fare per te, che cosa non fare?
Eccoti dunque la luce, ecco il fulgido cielo;
eccoti qui, fuor dalla reggia, il giaciglio
del tuo letto di malata.
Ogni tua parola era di venire qui:
ma presto ti affretterai ancora alle tue stanze.
Poiché subito muti animo e non gioisci di nulla;
e quel che hai non ti piace, e ciò che non hai
ritieni più caro.
È meglio essere ammalati, che curarli:
l'una è cosa semplice, l'altra comporta
affanno per l'anima e fatica per le braccia.
Tutta la vita dell'uomo è dolorosa
e non v'è tregua agli affanni:
la tenebra avvolge di nubi e nasconde
ciò che è più caro della stessa vita
e per ignoranza di ciò che è sotterra.
E siamo sedotti da favole vane.
Sollevate il mio corpo, sorreggetemi il capo:
sciolte sono le giunture delle mie membra.
Reggete, o ancelle, le mie braccia!
Grave mi è questa benda sul capo.
(Alla nutrice)
Toglila, spargimi i riccioli sulle spalle!
Fa' cuore, figlia, e non agitarti
Dolorosamente.
Meglio sopporterai il tuo male
Con calma e con nobile animo:
soffrire è necessità per gli uomini.
Ahimé!
Potessi da rorida fonte
Di pure acque attingere un sorso!
E sotto i pioppi, in un folto prato
distesa, riposare!
Figlia, che dici?
Non dire queste cose dinanzi alla gente,
scagliando parole di follia!
Portatemi sul monte! Al bosco
Voglio andare, fra i pini,
dove le cagne da caccia muovono
ad assalire le cerve screziate.
Per gli dèi, voglio incitare la muta
e scagliare una picca
tessalica, alta la mano presso la bionda chioma,
impugnando il dardo acuto!
Perché, figlia, così vaneggi?
Perché anche tu pensi alla caccia?
Perché brami linfe di fonte?
Presso le mura è un rorido clivo,
donde avresti bevanda.
Artemide, signora di Limna marina
E dei ginnasi sonanti di cavalli,
oh fossi nelle tue pianure
a domare ènete puledre!
Qual parola scagliasti, ancora in delirio!
Poco fa brama di caccia
Ti spingeva sui monti: e ora vorresti cavalle
Sulle sabbie senza flutti.
Queste parole han bisogno di molto vaticinio,
per sapere quale dio ti trascina
e travolge, la tua mente, figlia!
Ahimè, sventurata! Che feci mai?
Dove mi sviai dal retto pensiero?
Fui folle, caddi per colpa di un dio.
Ahimè, infelice!
Nutrice, vélami ancora il capo:
mi vergogno delle mie parole.
Coprimi! Dagli occhi mi scendono lacrime
e il mio sguardo è volto a vergogna.
Dà dolore il tornare alla ragione:
un male è certo la follia,
ma è meglio morire così, senza conoscenza.
Ecco, ti copro. Ma quando dunque la morte
coprirà il mio corpo?La lunga vita molte cose m'insegna.
Bisognerebbe che i mortali si unissero
Fra loro in moderate amicizie,
e non fino all'intimo midollo dell'anima;
che gli affetti fosse facile di sciogliere
e respingere e stringere.
Ma che un'anima sola soffra per due,
come io mi tormento per lei, è peso grave.
Si dice che condotta di vita troppo rigorosa
rovini più che dar gioia,
e piuttosto faccia guerra a saggezza.
Perciò il troppo io approvo meni
che quel famoso
<nulla di troppo>:
e i saggi saranno d'accordo con me.
O vecchia, fedele nutrice della regina, noi vediamo questi
dolorosi casi di Fedra, ma oscuro è per noi quale morbo sia
questo: e vorremmo sapere e udire da te.
NUTRICE Pur avendola interrogata, non so: non vuol parlare.
E non sai nemmeno qual fu l'origine di questi mali?
Sei venuta allo stesso punto! Essa tace su tutto questo.
Com'è debole e distrutta nel corpo!
E come no, se da due giorni è senza cibo?
Forse per delirio, o perché vuol morire?
Vuol morire e rifiuta il cibo, a rinunzia della vita.
Una strana cosa dici, se il marito la permette.
Essa nasconde il suo affanno e nega di essere ammalata.
E lui, guardandola in viso, non lo comprende?
Ora si trova lontano da questa terra.
Ma tu non hai fatto forza per cercar di conoscere il male e
la follia di costei?
A tutto sono arrivata, e nulla di più ho ottenuto. Ma nemmeno ora verrò meno al mio zelo, perché anche tu, qui Presente, possa attestare quale io sono verso i miei sventurati signori.
(A Fedra)
Orsù, figlia cara, dimentichiamo entrambe le parole di poc'anzi: tu sii più mite, sciogliendo il triste ciglio e il corso della tua mente; e io, lasciata la strada su cui non bene ti seguivo allora, passerò ad altro discorso migliore. se il tuo è un morbo di quelli che non si possono rivelare, siamo qui noi donne, per aiutarti a curare il tuo male; se invece il tuo caso può essere detto dinazi agli uomini, parla perché si possa informarne i medici.
Suvvia! Perché taci? Non dovresti tacere, figlia mia: ma devi confutarmi se ho torto, oppure convenire con me se ho ragione. Di' qualcosa; guardami dunque! Me disgraziata! Invano donne, ci prendiamo questa pena! Siamo lontano, come prima: né allora si lasciava commuovere dalle parole, né ora si lascia persuadere.
Sappi però (e sii pure spietata del mare!) che morendo, tradirai i tuoi figli, che saranno esclusi dalla reggia paterna. Pensa all'Amazzone equestre regina, che ha generato un padrone ai tuoi figli, un bastardo, ma con senno da figlio legittimo. Tu lo conosci bene: Ippolito!
Ahimè!
Ti toccano queste parole?
Tu mi uccidi, nutrice! Ti scongiuro, taci su quell'uomo d'ora innanzi, per gli dèi!
Vedi? Tu ragioni, ma pur ragionando non vuoi giovare ai tuoi figli e salvarti.
Amo i miei figli! Ma da altra sorte sono sconvolta.
Figlia, hai le mani pure di sangue?
Le mani son pure, ma l'anima è contaminata.
Forse per maleficio che ti ha gettato qualche nemico?
Una persona cara, senza volere, rovina me contro il mio volere.
Teseo ha commosso qualche colpa verso di te?
Nessuno mi veda mai a fargli del male!
Che è allora, questa cosa terribile che ti spinge a morire?
Lascia che io pecchi: non pecco contro di te.
Non certo di tua volontà: ma per colpa tua fallirò.
Che fai? Mi fai violenza, prendendomi la mano?
E anche le ginocchia, e non ti lascerò mai.
Sventura sarà per te, misera, se saprai: sventura!
Quale sventura più grande per me, che rimanere senza di te?
Ne morrai: eppure, è cosa che mi fa onore.
E perché dunque nascondi una cosa onesta a me che ti supplico?
Io medito nobili effetti da cosa turpe.
Dunque, rivelandola, sembrerai ancor più degna di onore.
Vattene, per gli dèi, lascia la mia destra!
No, perché non mi dai il dono che devi.
Lo darò! Rispetto la tua mano venerata.
Tacerò, ecco; quindi, tocca a te parlare.
Madre mia sventurata, quale amore amasti!
Quello per il toro, figlia, o che cosa dici?
E tu, misera sorella, sposa di Dioniso!
Figlia, che hai? Offendi i tuoi congiunti?
E io, terza sventurata, come perisco!
Sono proprio smarrita: dove andrà a finire questo discorso?
Di là, non di recente, vengono le nostre sventure.
Non so nulla di più, su quello che vorrei ascoltare.
Ahi, potessi dirmi tu quel che devo dire io!
Non sono un'indovina, da conoscere chiaramente le cose oscure.
Che cosa è dunque ciò che gli uomini chiamano amore?
Cosa dolcissima, o figlia, ed essa stessa dolorosa insieme.
Io, ne avrò avuto soltanto questa parte!
Che dici? Tu ami, figlia? E chi?
Chiunque mai egli sia, il figlio dell'Amazzone -
Ippolito, dici?
Da te, non da me l'hai udito.
Ahimè, figlia, che vorrai dire? Tu mi uccidi! Donne, cosa insostenibile è questa: e, viva, non la sopporterò. Giorno odioso, luce odiosa io vedo! Getterò via, abbandonerò questo corpo! Fuggirò dalla vita morendo. Addio! Io non esisto più. Anche le persone sagge, senza volerlo, hanno amore di mali. Non è dunque una dea, Cipride, ma altra cosa ancor più grande che una dea, se pur esiste: ed ha distrutto costei e me e la casa!
hai udito, hai sentito dunque la nostra signora lamentare inauditi, funesti casi? Possa io morire, prima di giungere, o diletta, alla tua follia! Ahimè, ahi, ahi! O misera, quali tormenti! O travagli, che nutrite i mortali! Sei perduta! Hai rivelato alla luce i tuoi mali. Quale tempo ti attende mai in questo giorno? Si compirà qualche cosa inaudita nelle case: e non è più oscuro dove finirà il destino voluto da Cipride, o sventurata figlia di Creta!
(Sollevandosi lentamente)
Donne di Trezene, che abitate questo vestibolo estremo della terra di Pelope, già altre volte, nelle lunghe notti, meditai come si corrompa la vita dei mortali. E mi sembra che essi facciano il peggio non per naturale impulso dell'animo, poiché molti sono pur dotati di senno. Così dunque bisogna considerare la cosa: noi sappiamo e conosciamo il bene, ma non ci sforziamo di farlo; alcuni per indolenza, altri anteponendo al bene qualche altro piacere.
E molti sono i diletti della vita: le lunghe conversazioni, e l'ozio, piacevole male, e il pudore. Ma di questo esistono due specie: uno non cattivo, l'altro rovina delle famiglie. Se la circostanza fosse chiara, non esisterebbero due cose espresse con le stesse lettere. Da quando dunque mi trovo a pensar questo, non c'è veleno capace di distruggerlo, così da tornare al pensiero contrario. Ecco, ti dirò anche il corso del mio pensiero.
Da quando amore mi ferì, io cercai come sopportarlo nel modo più nobile. E cominciai dunque da questo, dal tacere questo morbo e nasconderlo; poiché non ci si può fidare della lingua, che ben sa consigliare i pensieri degli altri, ma si produce da se stessa gravissimi danni. Poi, provvidi a sopportare nobilmente la mia demenza, vincendola con la virtù. Infine, poiché con questi mezzi non riuscivo a vincere Cipride, decisi di morire: il proposito migliore, nessuno lo negherà. E mi sia concesso di non restare nascosta, se agisco bene, e di non avere troppi testimoni, se agisco male. Sapevo che questa azione e questo male sono disonorevoli: e inoltre, essendo donna, non ignoravo di essere odiosa a tutti.
Fosse perita malamente colei che per prima disonorò il talamo con altri uomini! Dalle nobili case questo male cominciò a propagarsi tra le donne: quando infatti una sposa vergognosa piace alle persone elevate, certo parrà bella pure al volgo! E io odio anche quelle che sono oneste a parole, e poi di nascosto hanno ardimenti disonesti. Come possono mai, o Cipride, signora del mare, guardare in faccia i mariti senza tremare che la complice tenebra e i tetti delle case non mandino voce? Quanto a me, proprio questo mi uccide, o care: che io non sia sorpresa mai a disonorare mio marito e i figli che ho partorito. Liberi, in libertà di parola, fiorenti essi abitino l'inclita Atene, in buona fama riguardo alla loro madre! Un uomo, anche di animo ardito, diventa uno schiavo, quando abbia coscienza di colpe della madre e del padre.
E si dice che questo soltanto, per chi ne sia dotato, possa gareggiare con la vita: animo giusto e retto. Il tempo, quando capiti, rivela i malvagi porgendo loro uno specchio come ad una giovinetta. E non mi si veda mai fra costoro!
Oh, come bella sempre è la saggezza e come fruttifica buona fama tra gli uomini!
Signora, il tuo caso mi ha dato ora, ad un tratto, terribile spavento. Ma adesso comprendo di essere una sciocca: anche per gli uomini i secondi pensieri sono, in qualche modo, i più saggi. Non ti accade nulla di eccezionale o di inspiegabile: è l'ira della dea, che ti ha colpito. Tu ami: che meraviglia? Sei insieme con molti mortali. E per amore, dunque, vuoi perdere la vita? Non questo occorre agli amanti presenti e venturi, se devono morire. Quando Cipride si abbatte possente, non si può sostenerla: mite si accompagna con chi cede; ma se trova qualcuno superbo e orgoglioso, lo afferra, credi pure, e ne fa strazio.
Essa muove per l'etere, è nel flutto marino, Cipride, e tutto nasce da lei: è lei che semina e dona l'amore, da cui tutti sulla terra siamo nati. E quelli che posseggono gli scritti degli antichi e vivono essi stessi sempre insieme con le Muse, sanno che Zeus bramò un tempo le nozze di Semele, e sanno che la fulgida Aurora un tempo, per amore, rapì Cefalo fra gli dèi. Eppure essi abitano in cielo, non fuggono lontano dagli dèi: e hanno caro, credo, di essere stati vinti dagli eventi. E tu non vorrai sopportare? Tuo padre avrebbe dovuto, in tal caso, generarti sotto certe condizioni ovvero sotto il dominio di altri dèi, se non vuoi star contenta a queste leggi. Quanti uomini dotati di molto senno esistono, pensi, che, vedendo rovinato il loro matrimonio, fingono di non vedere! Quanti padri aiutano i figli colpevoli a sopportare Cipride! Questo è proprio di coloro, fra gli uomini, che sono saggi: nascondere quanto non è onesto.
E non devono affaticarsi troppo alla loro vita, essi che nemmeno saprebbero disporre accuratamente il tetto che copre la loro casa. E tu, caduta in tanta sventura, come pensi di venire fuori a nuoto? E se, in quanto essere umano, hai più beni che mali, sei davvero fortunata. Dunque, figlia cara, lascia questi cattivi pensieri e cessa di essere superba: perché non è altro che superbia, il voler essere più forte degli dèi. Ardisci amare: un dio l'ha voluto! E poiché sei malata, volgi in qualche modo il tuo male a buon fine: esistono incantamenti e parole fascinatrici; e ci sarà pure un qualche farmaco per questo tuo male. Gli uomini, certo, sarebbero tardi a scoprirlo, se noi donne non trovassimo i mezzi!
Fedra, costei dice cose molto utili, in questo frangente: io però lodo te. Ma questa lode è più spiacevole che le parole di costei; e per te molto più dolorosa a udirsi.
Le parole troppo belle: ecco, fra gli uomini, la rovina delle città ben governate e delle case! Non bisogna, infatti, dire cose gradevoli all'orecchio, ma tali che uno ne abbia buona fama.
Che discorsi solenni! Non di belle parole hai bisogno, ma di lui. Bisogna considerar bene subito,
parlandogli chiaro riguardo a te. Se la tua vita non si trovasse in tali casi e tu fossi padrona della tua mente, non ti vorrei condurre a questo punto, per soddisfare il tuo piacere d'amore. Ma ora il cimento è grave: salvare la tua vita. E questa è cosa non biasimevole.
Hai detto parole terribili! Non chiuderai dunque la bocca e smetterai in avvenire questi discorsi così turpi?
Turpi, ma migliori, per te, delle tue belle parole. Quest'azione, se riuscirà a salvarti, vale meglio della tua fama, di cui morrai orgogliosa.
No, per gli dèi, non andar oltre! Tu hai ragione, ma dici cose turpi. L'anima mia è soggiogata da amore: e se ancora dirai cose turpi con belle parole, io finirò in preda a quel che ora fuggo.
Se pensi così, non dovevi errare. Ma dato che hai sbagliato, stammi a sentire: e ne seguirà piacere. Ho in casa filtri per fascino d'amore (solo ora mi viene a mente), che senza vergogna e senza danno per il tuo senno porranno fine a questo male, se non sarai vile. Ma occorre avere qualche segno della persona amata: una parola, o un lembo di mantello, per fare, di due persone, un piacere solo.
Il farmaco è un unguento o bevanda?
Non ricordo. Cerca non di sapere, ma di giovartene, figlia.
Ho paura che tu mi sembri troppo saggia.
Hai paura di tutto, vedi? Ma che temi?
Che tu riveli qualcosa di questo al figlio di Teseo.
Lasciami fare, figlia: aggiusterò tutto per bene. Soltanto, o Afrodite, signora dei flutti, tu sii mia collaboratrice! Le altre cose che penso, basterà che io ne parli ai miei amici in casa.
(Entra nel palazzo.)
Eros, Eros, che stilli
Per gli occhi desiderio, infondendo
dolce piacere nell'anima
A coloro cui muovi guerra, non apparire
a me con sventura, non venire smodato!
Non di fuoco, non di astri
dardo è più forte, come quello
di
Afrodite, che scaglia dalle mani
Eros figlio di Zeus.
Invano, invano presso l'Alfeo
e nelle pitiche dimore di Febo
offre l'Ellade strage grande di bovi,
se Eros tiranno degli uomini,
custode dei talami
dilettissimi di Afrodite,
non veneriamo;
lui che distrugge e fra sventure di ogni sorta
incede, quando arriva.
La puledra d'Ecalia,
intatta da giogo, di maschili letti ignara
e non sposata ancora,
lontano dalle case d'Eurito aggiogò Cipride
quale Naiade in corsa o Baccante
con sangue, con fumo, con inni di strage,
e diede al figlio di Alcmena.
O sventurata per quelle nozze!
O sacre mura di Tebe, o fonte Dircea,
voi potreste dire come Cipride assale!
Con folgore fiammeggiante
Assopì in fato di morte, appena sposa,
la madre di Bacco
due volte nato. Terribile
ovunque ella spira
e quale ape trasvola.
(Avvicinandosi alla porta della reggia)
Tacete, donne! Siamo perdute!
Che c'è di terribile per te, o Fedra, nella reggia?
Tacete! Lasciatemi sentire la voce di quelli di dentro.
Taccio, ma triste preludio è questo.
Ahimè, ahi, ahi, me sventurata, per le mie pene!
Di quale voce parli, quale parola gridi? Rivelaci dunque quale voce ti atterrisce, irrompendo nel tuo animo.
Sono perduta! Qui, avvicinatevi all'entrata, udite quale strepito avviene nelle case!
Sei tu presso la porta: a te di sentire la voce dalle case. Dimmi, dimmi, quale mai sventura è venuta?
Il figlio dell'Amazzone equestre, Ippolito, grida e pronunzia terribili ingiurie contro la nutrice.
Sento clamore, ma non posso dire con chiarezza come le grida a te giunsero, giunsero attraverso le porte.
Ecco, egli la chiama apertamente mezzana di turpitudini, traditrice del talamo del suo signore.
Sei tradita, o cara, tradita dai cari! Che cosa ti consiglierò? Il segreto è svelato, e tu sei perduta.
Ahi, me sventurata! Mi ha perduto, dicendo i miei casi!
Per amore, ma non nel modo giusto ha cercato di guarir questo male. E dunque, che cosa farai in questa sofferenza senza scampo?
Non so che una sola cosa: morire al più presto, unico rimedio a questa sciagura.
(Uscendo dal palazzo seguito dalla nutrice)
O terra madre, o raggi del sole, quali parole indicibili ho udito!
Taci, figlio, prima che qualcuno oda le grida.
Non posso tacere, dopo aver udito cose terribili.
Taci, per questa tua bella destra!
Non tendere verso di me la mano e non toccar la veste!
Per le tue ginocchia, non rovinarmi!
E perché, se, come affermi, nulla hai detto di male?
Quel discorso, figlio, non bisogna farlo sapere in giro.
IPPOLITO Proprio ciò che è onesto è più bello dirlo dinanzi alla gente.
Figlio, non disprezzare i giuramenti!
La lingua ha giurato, non ha giurato l'animo!
Che vuoi fare, o figlio? Rovinerai i tuoi cari?
Li detesto: nessun malvagio mi è caro!
Perdona: è naturale che gli uomini sbaglino, figlio!
O Zeus, perché dunque hai messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole? Se proprio volevi seminare la stirpe dei mortali, non dalle donne dovevi produrla: ma che gli uomini comprassero il seme dei figli, depositando in cambio nei tuoi templi oro o ferro o peso di bronzo, ciascuno secondo il valore del prezzo, e viver senza donne in libere case. Ora invece, per portarci in casa questo malanno, distruggiamo le ricchezze della casa. E da questo è chiaro che la donna è un grosso guaio, se il padre, che l'ha generata e allevata, aggiunge una dote e la colloca in altra casa, per liberarsi da un guaio! Chi si è preso questa terribile genia in casa, gode, sciagurato!, a ricoprire questo idolo maligno con ornamenti e vestiti, consumando le ricchezze della casa! Ed egli si trova in questa necessità, che, se si è imparentato con parenti di alto rango, deve tenersi e godersi una moglie odiosa; e se ha sposato una brava donna, deve tenersi inutili parenti e, col bene, sopportare un malanno. La cosa migliore è l'aver in casa una donna da nulla, ma almeno inutile nella sua stupidità.
La donna saputa, la odio! Non me ne capiti in casa una, che pensi cose più grandi che a donna conviene. È proprio in queste donne intelligenti che Cipride ingenera la scelleratezza: mentre la donna semplice si sottrae alla follia per il suo poco senno. Bisognerebbe inoltre che alla donna semplice si sottrae alla follia per il suo poco senno. Bisognerebbe inoltre che alla donna non si avvicinassero ancelle, ma le stessero accanto solo muti mostri di fiere, perché non possa rivolgere parola ad alcuno e nemmeno, a sua volta, ascoltare i discorsi delle altre. Ora invece, in casa, le scellerate meditano disegni scellerati e le ancelle li portano fuori.
E così anche tu, scellerata, sei venuta per commercio col talamo vietato di mio padre! Dovrò purificarmene con acque correnti, lavando le mie orecchie. Ma come potrei essere scellerato io, che solo per aver udito queste proposte non mi ritengo puro? Sappilo bene, o donna: ti salva la mia pietà; se non fossi stato sorpreso senza difesa con giuramenti sugli dèi, certo non mi sarei trattenuto dal riferire questo a mio padre. Ora me ne andrò da questo palazzo, finché Teseo è lontano, e terrò chiusa la bocca. Ma tornando qui con lui, voglio vedere come lo guarderai in faccia, tu e la tua padrona: e conoscerò la tua sfrontatezza, io che l'ho assaggiata. Possiate morire! No sarò mai sazio di maledire le donne, anche se qualcuno dice che lo ripeto sempre: esse infatti sono sempre scellerate.
E qualcuno insegni loro ad essere oneste, o lasci che io imprechi sempre contro di loro!
(Esce)
Misera, sventurata sorte delle donne! Quali mezzi o quali parole ho io, per sciogliere questo nodo di sventura, dopo essere stata abbattuta? Ho avuto il mio castigo. O terra, o luce dove mai sfuggirò al mio destino? Come celerò il mio male, o care? Qual dio soccorrevole, quale mortale mai vorrebbe, aiutandomi, apparire complice della mia colpa? Questa sventura mia non può essere valicata dalla mia vita: io sono la più disgraziata delle donne!
Ahimè, è fatta! Le arti della tua serva, o signora, non hanno avuto successo e la cosa va male.
(Alla nutrice)
Scelleratissima, rovina dei tuoi cari, che mi hai fatto? Zeus mio progenitore possa distruggerti dalla radice, colpendoti col fulmine! Non ti avevo detto - non prevedevo forse il tuo pensiero? - di tacere su questa cosa per cui ora sono disonorata? Ma tu non ci sei riuscita: e così morrò senza onore. Ma ora parole nuove occorrono. Costui, esasperato l'animo dall'ira, riferirà a suo padre la tua colpa, contro di noi, riferirà al vecchio Pitteo questa disgrazia e riempirà tutto il paese di discorsi infamanti. Possa morire tu e chiunque è pronto a beneficare gli amici in modo disonesto loro malgrado!
Certo, signora, tu puoi rimproverarmi la mia colpa. Il sentimento che ti morde vince il discernimento. Ma anch'io, se me lo concedi, ho qualcosa da rispondere: ti ho cresciuta e ti voglio bene. Cercando un rimedio al tuo male, ho trovato quello che non volevo.
Se mi fosse andata bene, certo sarei nel numero dei saggi: la saggezza, l'abbiamo secondo gli eventi.
Ma è giusto forse può bastarmi che tu, dopo avermi ferita, lo ammetta a parole?
Stiamo parlando molto. Certo io non fui saggia, ma puoi ancora salvarti da questi mali , o figlia.
(Alla nutrice che esce di scena)
Non parlare più! Anche prima mi hai consigliato in maniera sbagliata e hai agito male. Vattene via e pensa a te: aggiusterò io per bene le mie cose.
(Al coro)
E voi, nobili fanciulle di Trezene, soltanto questo concedetemi, ve ne supplico: nascondete col silenzio quanto qui udiste.
Giuro per Artemide veneranda, figlia di Zeus, di non rivelare mai alla luce alcuno dei tuoi mali.
Bene. Questo, di cui ti prego, è l'unico ritrovato che ho per la mia sventura, sì da procurare una vita onorata ai miei figli e da trarne giovamento io stessa, per quanto è accaduto. Non
disonorerò mai la mia casa di Creta: e non verrò alla presenza di Teseo, dopo azioni così vergognose, per riguardo alla mia sola vita.
Vuoi dunque compiere qualche male irrimediabile?
Morire: in qual modo, a questo penserò io.
Non dire queste cose!
E tu almeno, consigliami bene. In questo giorno, uscendo dalla vita, allieterò Cipride che mi uccide. Da un amaro amore sarò vinta. Ma, morendo, sarò la rovina anche per un altro, perché sappia non essere superbo per le mie sventure. E dividendo insieme con me questo male, imparerà a esser saggio.
(Entra nella reggia).
Oh fossi in anfratti inaccessibili
dove, fra schiere volanti,
alato uccello un dio mi facesse!
Potessi levarmi sull'onda
marina del lido adriano
e sulle acque d'Eridano,
dove nel paterno flutto purpureo
le misere vergini
stillano, per pietà di Fetonte,
ambrati fulgori di lacrime!
Potessi giungere al lido fecondo di pomi
delle Esperidi canore,
dove il signore del mare purpureo
non oltre concede via ai naviganti
fissando il limite sacro
del cielo, che Atlante sorregge;
e scorrono ambrosie fonti
presso la stanza nuziale di Zeus,
dove la santissima terra datrice di vita
largisce felicità agli dèi.O nave cretese dalle candide ali,
che del pelago sul marino flutto sonante
la mia regina traesti da case beate,
vantaggio di funestissime nozze!
Da entrambe le parti
volò con triste auspicio:
e dalla terra cretese verso l'inclita Atene
e di Munichia al lido
legarono le ritorte cime delle funi,
e scesero sul continente.
Per questo nell'anima è distrutta
da morbo terribile di Afrodite
per un empio amore.
E sommersa da crudele sventura,
un cappio annoderà
sospeso all'alto del talamo,
adattandolo al candido collo,
vergognosa del suo crudele destino,
e sceglierà fama gloriosa
scacciando dall'anima tormentoso amore.
(Dall'interno del palazzo)
Ahi, ahimè, correte in aiuto quanti siete vicini alla reggia! La mia signora, la moglie di Teseo, si è impiccata!
Ahi, ahi, è finita. La regina non è più sospesa a un pendulo laccio!
Non accorrete? Non porterà nessuno un ferro a doppio taglio, per troncare questo nodo al suo collo?
Che dobbiamo fare, amiche? Pensate di entrare nella reggia, e sciogliere la regina dallo stretto laccio?
E che? Non sono là giovani ancelle? L'intromettersi troppo non porta sicurezza di vita.
Sollevate, deponete questo misero cadavere, amaro custode della dimora dei miei padroni!
A quanto sento, quell'infelice è morta: ecco che la depongono come un cadavere.
(Entrando)
Donne, sapete quali grida sono queste nel palazzo? Mi è giunta la grave voce dei servi: e la casa non si degna di salutarmi lietamente come pellegrino, spalancando le porte. Forse è acccaduto qualcosa di nuovo al vecchio Pitteo? Certo è in età avanzata: e tuttavia lascerebbe questa casa con dolore per noi.
CORIFEA Questa sorte, o Teseo, non ti riguarda per i vecchi. Sono i giovani, morendo, a darti dolore!
Ahimè, è stata forse rapita la vita ai miei figli?
Essi vivono: ma la madre è morta in modo assai doloroso per te.
Che dici? E' morta la mia sposa? E per quale caso?
Si è impiccata sospesa a un laccio.
Agghiacciata dal dolore, o per quale evento?
Tanto sappiamo. Anche noi infatti siamo da poco alla reggia, o Teseo, a piangere le tue sventure.
Ahi, perché dunque, disgraziato pellegrino, ho il capo coronato di foglie intrecciate? Servi, togliete i chiavistelli delle porte, aprite i serrami, che io veda l'amara vista di mia moglie, che morendo mi uccide!
(Si apre la porta della reggia: su un letto giace il cadavere di Fedra, circondato dalle ancelle)
Ahi, ahi! Sventurata per i miseri tuoi mali! Soffristi, compisti tal cosa da sconvolgere questa casa. Ahi, quale audacia! O tu, che sei morta di violenta morte e per empio evento, abbattuta dalla misera tua mano! Chi dunque, infelice, ha distrutto la tua vita?
Ahimè, mie pene! Ho sofferto, cittadini, il più grande dei miei mali! O sorte, come grave ti sei abbattuta su me e sulla mia casa; inespicabile macchia da parte di un qualche genio vendicatore, anzi distruttore insostenibile di vita! Me disgraziato! Vedo un mare sconfinato di mali, tanto che non potrò mai venirne fuori a nuoto né superare l'onda di questa sventura! Con quale parola io misero chiamerò questa grave tua sorte, o donna? Come un uccello mi sei scomparsa dalle mani, spiccando un celere balzo nell'Ade! Ahi, ahi, miserandi, miserandi miei dolori! Da qualche tempo lontano io riporto il destino voluto dagli dèi per le colpe di taluno dei miei avi!
Signore, non su te soltanto venne questa sventura. Insieme con molti altri perdesti una nobile sposa.
Nella tenebra di sotterra, nel buio voglio abitare, morto, io misero, orbato della tua presenza amata! Uccidesti più ancora che morire. Chi sentirò? Donde mai destino di morte, infelice donna, assalì il tuo cuore? Vorrà dirmi qualcuno l'accaduto, o questa casa regale accoglie invano uno stuolo di miei servi? Ahimè, ahi per te! Infelice, qual dolore indicibile e insopportabile ho visto nella mia diletta casa! Sono finito! Deserta è la casa, orfani i figli! Ahi, ahi, ci abbandonasti, ci abbandonasti, o diletta, ottima fra quante donne vede la luce del sole e lo stellato fulgore della notte!
Ahi misero, quanta sventura ha la casa! Le mie palpebre sono tutte molli di lacrime per la tua sciagura: e da tempo io tremo per la disgrazia che verrà dopo questa.
Ahi! Ma che è mai questa tavoletta che pende dalla cara mano? Vuol dire qualcosa di nuovo? O forse mi scrisse le sue intenzioni, la sventurata, riguardo al talamo e ai figli, per pregarmi? Sii tranquilla, o infelice! Non v'è altra donna, che entrerà nel letto e nella casa di Teseo! Ma l'impronta del castone aureo di costei, che più non vive, mi attira. Orsù, svolgiamo i legami del sigillo, che io veda che cosa vuol dirmi questa lettera.
Ahi, ahi, nuova vicenda, ecco, un dio aggiunge in continuazione! Per me invero, dopo l'accaduto, è possibile solo un insostenibile destino di vita. E dico che la casa dei miei signori, ahi!, è distrutta e più non esiste. O demone, se mai è possibile, non abbattere questa casa, ascolta le mie preghiere: da un segno, come un indovino, io vedo presagio di qualche sventura!
(Leggendo il messaggio)
Ahimè! Qual mai altra sventura su sventura, insostenibile e indicibile! Ahi, me infelice!
Che c'è? Parla, se posso averne parte.
Grida, grida cose orribili questa lettera! Dove fuggire il peso delle disgrazie? Sono perduto, sono finito! Quale, quale mai triste canto io vidi risonare in questo scritto, infelice!
Ahimè, tu riveli un discorso che è inizio di mali!
No, non posso più trattenere nelle porte della bocca questa invincibile, funesta sventura! Ahi, cittadini! Ippolito osò toccare a violenza il mio letto, sprezzando l'occhio augusto di Zeus. E tu, padre Poseidon, delle tre imprecazioni che una volta mi concedesti, con una di esse distruggi mio figlio. E se chiare imprecazioni mi desti, che egli non sfugga a questo giorno!
Signore, per gli dèi, ritira questa maledizione! Saprai, poi, di avere errato. Ascoltami!
Non è possibile. E inoltre lo bandirò da questa terra: di due sorti una almeno lo colpirà. O Poseidon, accogliendo la mia maledizione, lo manderà morto alla dimora d'Ade; oppure bandito da questa terra sopporterà una dolorosa esistenza, errando in paese straniero.
Ma ecco tuo figlio Ippolito in persona, che giunge a tempo. Teseo, signore desisti dal tuo funesto sdegno e provvedi il meglio per la tua casa.
Padre, sono giunto in fretta, appena ho udito le tue grida. Ignoro la cosa per cui ora piangi e vorrei sentirla da te. Ma che è questo? Vedo, padre, la tua sposa morta. È cosa del tutto incredibile? L'ho lasciata poc'anzi; e lei, non è molto tempo che vedeva questa luce.
Che cosa le è accaduto? Com'è morta? Padre, vorrei saperlo da te. Taci? Ma non conviene il silenzio nelle sciagure. Il cuore, che brama conoscere ogni cosa, anche nei mali si mostra avido. Non è giusto padre celare le tue sventure agli amici e ancor più che amici.
O esseri umani, che molto vanamente errate, a quale scopo insegnate tante arti, e tante cose escogitate e trovate, ma una sola non conoscete e nemmeno cercate mai: insegnare saggezza a chi non ha senno!
Abile maestro di saggezza tu dici uno che fosse capace di costringere alla ragione coloro che ne sono privi. Ma fuor di proposito vai sottilizzando, padre, e temo che la tua lingua ecceda a causa dei mali.
Ahimè, gli uomini dovrebbero avere un chiaro segno degli amici e discernimento degli animi, quale sia sincero e quale no. E tutti gli uomini avere due voci, l'una sincera e un'altra quale che sia, perché quella disonesta fosse convinta di falsità dalla onesta. E non saremmo ingannati.
Forse qualche amico mi ha calunniato al tuo orecchio, e soffro pur essendo di nulla colpevole? Io stupisco: e mi stupiscono i tuoi discorsi strani e insensati.
Ahi, anima umana, dove giungerà mai? Quale sarà il limite dell'ardimento e dell'audacia? Se andranno gonfiandosi ad ogni vita d'uomo e l'ultimo supererà in malvagità il precedente, gli dèi dovranno aggiungere a questa un'altra terra, che dia posto agli ingiusti e ai malvagi. Guardatecostui, che, generato da me, ha svergognato il mio letto ed è chiaramente accusato dalla morta come scelleratissimo! Mostra il tuo volto, qui, dinanzi a tuo padre, dopo esser giunto a un delitto! E tu tratti con gli dèi, come un uomo superiore. Tu, casto e intatto dal male? Non posso credere alle tue vanterie, così da attribuire agli dèi la stoltezza di pensar male.
Gloriati pure e truffa gli altri col tuo regime vegetariano! Prenditi Orfeo per signore e fa l'ispirato, onorando i fumi di molti libri! Ed eccoti colto sul fatto. La gente come questa, io grido a tutti di fuggirla: mentre meditano cose turpi, intrappolano con discorsi solenni. Costei è morta: pensi che da questo potrai salvarti? Ma proprio qui sei colto in errore, o miserabile! Quali parole, quali giuramenti potrebbero essere più forti di costei, così che tu ti sottragga all'accusa? Tu dirai che essa ti odiava e che il bastardo è ostile per natura ai figli legittimi. E affermi così che costei ha fatto cattivo traffico della sua esistenza, se, in odio a te, ha perduto quanto aveva di più caro. Dirai che la follia d'amore non è insita negli uomini, ed è naturale nelle donne? Io so che i giovani non sono più saldi delle donne, quando Cipride sconvolge i giovani loro cuori: ma l'esser maschi è una condizione che li aiuta.
Ma ora perché contendere con le tue parole, quando c'è un cadavere, testimone chiarissimo? Vattene subito in esilio da questa terra: e non recarti nemmeno ad Atene, costruita dagli dèi, o nei confini della terra soggetta alla mia lancia. Se, dopo quanto mi hai fatto, cederò di fronte a te, Sinis, il ladrone dell'Istmo, non potrà mai attestare che l'ho ucciso io, ma dirà che mi vanto invano; e le rupi Scironidi, prossime al mare, negheranno che io sono duro con i malvagi.
Non so proprio come potrei dire felice alcun mortale: anche le sorti più alte sono capovolte.
Padre, terribile è lo sdegno e lo sconvolgimento del tuo animo. Ma anche una cosa adorna di belle parole, se le sveliamo, non è bella. Io sono inesperto nel tenere discorsi alla folla e sono più abile dinanzi ai miei coetanei e a poche persone. E anche questo è giusto: perché quelli che valgono poco di fronte ai saggi, sono i più bravi a parlare alla folla. E tuttavia è necessario per questa sventura ch'è giunta, che io sciolga la lingua.
E comincerò proprio dove tu mi attaccasti per distruggermi, pensando che non fossi in grado di ribattere. Tu vedi questa luce e questa terra: anche se lo neghi, non esiste un uomo più virtuoso di me. Anzitutto so venerare gli dèi e frequentare amici inesperti di ingiustizie, che hanno il pudore di non professare brutti sentimenti né di aiutare in turpi azioni coloro che le fanno. Né io, padre, derido coloro che frequento: ma sono amico del pari a chi è assente e a chi è vicino. Di una cosa poi sono intatto, quella per cui ora pensi di avermi colto in fallo. Fino ad oggi il mio corpo è puro da amplesso: non conosco queste azioni, se non per averne sentito parlare e per averle viste nei quadri.
E non ho nemmeno gran propensione a vederle, perché ho l'anima vergine. Forse, questa mia castità non ti persuade: e allora tocca a te dimostrare in qual modo fui corrotto. Forse il corpo di costei era più bello di tutte le altre donne? O vagheggiavo di abitare nella tua casa, prendendomi per giunta, in eredità, il tuo letto? Sarei stato davvero stolto, anzi del tutto insensato. Ma, dirai, il potere è dolce: per i saggi proprio no, se è vero che la tirannide sconvolge il senno dei mortali, cui essa piace. Io vorrei vincere come primo nei giochi ellenici, ma essere il secondo in città, e vivere felice sempre insieme con i migliori amici: allora si è liberi di agire e la mancanza di pericolo dà gioia più grande del potere. Una sola cosa non ti ho detto di me: il resto lo sai.
Se io avessi un testimone per provare chi sono e, costei vedendo ancora la luce, potessi difendermi, tu, esaminando i fatti, vedresti i colpevoli. Ora per il suolo della terra e per Zeus, custode dei giuramenti, io giuro di non aver mai toccato il tuo letto nuziale e di non averlo nemmeno pensato o desiderato. Che io possa morire oscuro e ignoto, senza patria, senza casa, esule errabondo: e né il mare né la terra accolgano il mio cadavere, se io sono un malvagio. Se poi costei si uccise per qualche timore, non so: a me non è lecito dire di più. Essa fu casta, non potendo esserlo; e io, che potevo, non ne ho usato bene.
Hai detto quanto basta per confutare l'accusa mostrando i giuramenti per gli dèi, non piccola garanzia.
Non è dunque un impostore e un disonesto costui, che confida di vincere il mio animo con la dolcezza, lui che ha disonorato suo padre?
E io stupisco molto di te, padre: se tu fossi stato il figlio e io tuo padre, ti avrei ucciso e non ti avrei condannato all'esilio, qualora ti avessi ritenuto colpevole di aver toccato mia moglie.
Giusta pena davvero, questa che hai detto! Ma non morrai secondo la legge che hai proposto per te: facile è per l'empio una rapida morte. Ma esule errante fuor dalla patria, consumerai una misera vita in terra straniera. Questa è la mercede per un empio!
Ahimè, che intendi fare? Mi bandirai da questa terra, e non attenderai che il tempo ti informi su di me?
Oltre il Ponto e i confini d'Atlante, se mai io potessi: tanto ti odio!
E mi scaccerai così dal paese, senza un giudizio, senza aver esaminato giuramenti, prove e responsi di indovini?
Questa tavoletta, che non ha bisogno di prove, ti accusa con certezza! E tanti saluti agli uccelli che si aggirano sul nostro capo!
O dèi, perché dunque non posso sciogliere la mia bocca, io che muoio proprio per voi che venero? No: comunque non riuscirei a convincere chi debbo, e invano violerei i giuramenti che giurai.
Ahimè, che afflizione codesta tua santità! Non te ne andrai dunque al più presto fuor dalla terra patria?
E dove volgermi, io sventurato? Esule per una tale accusa, alla casa di quale ospite andrò?
Presso chi gode di ospitare corruttori di donne e compagni di malvagità.
Ahimè, mi trafigge il cuore sino alle lacrime, che io debba parere un malvagio e sembrarlo a te!
Allora dovevi piangere e prevederlo, quando osasti far violenza alla moglie di tuo padre.
O case, poteste voi mandar voce per me e attestare se io sono un malvagio!
Ricorri, accortamente, a testimoni muti: ma il fatto, senza parlare, ti denunzia malvagio.
Ahimè, potessi io starmi a fronte e guardarmi in faccia, per piangere i mali che soffro!
Sei molto più abile a curarti da te stesso che ad agire onestamente verso i tuoi genitori, come era giusto.
O madre sventurata, o amara nascita! Nessuno dei miei cari sia mai bastardo!
Servi, trascinatelo via! Non sentite che da un pezzo ho ordinato di mandarlo in esilio?
Avrà da piangere chi di costoro mi toccherà. Cacciami tu stesso da questa terra, se hai cuore!
Lo farò se non obbedirai ai miei ordini: non ho alcuna pietà del tuo esilio.
È deciso, a quanto pare. Me misero! Io conosco la verità, ma non so come potrei dirla.
(Verso la statua di Artemide)
O figlia di Latona, la più cara a me delle divinità, compagna di vita e compagna di caccia, andremo in esilio dalla nobile Atene! Addio, o terra e città di Eretteo! O suolo di Trezene, che ospiti tanti giovani felici, addio! Per l'ultima volta ti parlo e ti vedo. Suvvia, giovani coetanei miei di questa terra, salutatemi e accompagnatemi fuori dal paese. Non vedrete mai un altro uomo più casto, anche se così non sembra a mio padre.
(Esce col seguito, mentre Teseo rientra nella reggia)
Certo, la sollecitudine degli dèi,
quando venga nel cuore, molto allevia le pene;
ma pur qualche senno
racchiudendo nella mia speranza,
io ne sono abbandonato, se guardo alle sorti
e alle azioni degli uomini.
Ché tutte da tutte le parti si alternano
E mutevole è la vita per gli uomini,
errante sempre.
Possa il destino da parte degli dèi
A me prego
Questo concedere: sorte felice
E cuore intatto da affanni!
Non sia la mia mente né rigida né falsa;
e i costumi docilmente mutando
per l'indomani,
nella vita sempre io sia felice!
Ma più non ho l'animo sereno,
vedendo cose inattese,
da quando scacciato
vedemmo il più fulgido d'Ellade,
l'astro d'Atene,
per l'ira paterna in terra straniera partito.
O arenoso lido della città
e boschi montani, dove con le veloci
cagne egli uccideva le fiere
insieme con la veneranda Dittinna!
Non più guiderai la coppia
di ènete puledre,
la pista di Limna premendo
coi piedi degli agili cavalli;
e il canto che insonne si accompagnava alla cetra
cesserà nella casa paterna;
e senza corone saranno
i recessi della figlia di Latona nel verde profondo:
con il tuo esilio, è finita
la nuziale contesa delle vergini per il tuo letto!
E io per questa tua sventura
sopporterò ancora, con lacrime,
insostenibile sorte. O misera madre,
invano, ahi, lo partoristi!
Sono sdegnata con gli dèi.
O Cariti compagne,
perché dalla patria terra
questo infelice, non colpevole di alcun delitto,
mandate via da queste case?
Ma ecco, scorgo un compagno di Ippolito, che viene in fretta verso la reggia, triste in volto.
(Entrando da sinistra)
O donne, dove posso trovare Teseo, signore di questa terra? Se lo sapete, indicatemelo: è forse nel palazzo?
(Appare Teseo, sulla soglia della reggia)
Eccolo di persona, che esce dalla reggia.
O Teseo, reco notizia che sarà d'affanno per te e per i cittadini, che abitano Atene e la terra trezenia.
Che c'è? Forse una nuova sciagura ha colpito le due città vicine?
Ippolito non è più, per così dire: ancora per poco egli vede la luce.
Per mano di chi? Forse gli divenne nemico qualcuno del quale, come di suo padre, oltraggiò la moglie con la violenza?
Lo ha ucciso proprio l'equipaggio del suo carro, e le maledizioni della tua bocca, che imprecasti contro tuo figlio, pregando tuo padre, signore del mare.
O dèi! O Poseidon! Eri dunque mio padre davvero, poiché ascoltasti i miei voti!
(Al nunzio)
Parla! Come perì? In qual modo la clava di Dike percosse lui che mi ha oltraggiato?
Lungo la riva battuta dalle onde noi strigliavamo le criniere dei cavalli, piangendo: era giunto un messo ad annunziarci che Ippolito, cacciato da te in doloroso esilio, non avrebbe posto piede in questa terra. Poi giunse lui, aggiungendo il suo pianto al nostro, sulla spiaggia: e lo seguiva innumerevole compagnia di amici coetanei.
Dopo un poco, mettendo fine ai lamenti, <Perché>, disse, <sono così sconvolto? Bisogna obbedire agli ordini del padre. Servi, aggiogate dunque i cavalli ai carri: io non ho più patria>. E allora tutti si affrettarono e, in meno che non si dica, portammo le puledre bardate al nostro signore. Egli prende in mano le redini dal bordo del carro, adattando i piedi proprio negli incavi. E levate le mani verso gli dèi, dapprima disse: <Zeus, che io non viva più, se sono malvagio! E comprenda mio padre che egli mi fa torto, sia che io perisca, sia che veda ancora la luce!>. Poi, afferrato il pungolo, lo vibrava sulle puledre, tutte insieme. Noi servi seguivamo il nostro signore, ai piedi del carro, presso il morso, per la strada che mena dritto ad Argo e ad Epidauro.
Così entrammo in un luogo solitario: una spiaggia, di là da questa terra, che si stende verso il mare Saronico. E allora un rombo, come un tuono sotterraneo di Zeus, mandò cupo fragore, spaventoso a udirsi. I cavalli rizzarono le teste e gli orecchi al cielo: noi fummo presi da violento terrore, donde mai venisse quel rumore. Spinto lo sguardo verso la spiaggia percossa dai flutti, vedemmo un'onda straordinaria levarsi fino al cielo, onde ci fu tolto di vedere il lido Scironio; e nascose l'Istmo e lo scoglio di Asclepio. E l'onda rigonfia, lanciando molta spuma tutt'intorno e ribollendo per il soffio del mare, irrompe verso la spiaggia, dov'era la quadriga.
E con l'impeto della terza ondata, il flutto mandò fuori un toro, mostro selvaggio: e tutta la terra piena di fragore ripercosse un terribile muggito; e a chi guardava appariva vista insostenibile allo sguardo. Subito un panico terribile si abbatté sulle cavalle. E il padrone, molto esperto della loro natura, afferrò le redini con entrambe le mani, proprio come un marinaio tira il remo, e si buttò indietro legandosi intorno le briglie. Ma le puledre, mordendo con le mascelle i freni temprati nel fuoco, lo trascinano a forza senza lasciarsi piegare né dalla mano del nocchiero né dalle redini né dal carro ben connesso. E se egli, reggendo il timone, drizzava la corsa verso il terreno molle, il toro gli appariva dinanzi, facendo impazzire di terrore la quadriga e costringendolo a voltare.
E se le puledre si spingevano furenti verso le rocce, esso accostandosi in silenzio seguiva il carro: finché lo abbatté e lo rovesciò, scagliando contro la roccia le ruote del carro. Tutto fu confuso: e i mozzi delle ruote e i cavicchi degli assi schizzarono via. Lo sventurato, stretto nelle briglie, prigioniero di lacci inestricabili, viene travolto, scagliato col capo contro rocce, le carni lacerate, mentre grida parole terribili a udirsi: <Fermatevi, cavalle nutrite nelle mie stalle, non mi distruggete! O sciagurata maledizione di mio padre! Chi vorrà salvare un uomo eccellente?>. E molti, che avremmo voluto, eravamo rimasti indietro. Ed ecco sciolto dalle strisce delle redini cade non so come al suolo, respirando ancora poca vita.
Le cavalle e il toro, funesto mostro, svanirono non so in quale parte del suolo petroso. Io sono un servo della tua casa, o signore: ma che tuo figlio sia un malvagio, questo non potrò crede5rlo mai, neppure se si impaccasse tutta la razza delle donne, o qualcuno riempisse di scrittura tutti i pini dell'Ida. Io so che è un animo nobile.
Ahi, evento di nuove sventure è compiuto, e non esiste scampo dalla sorte e dal Fato!
Gioisco alle tue parole, per l'odio verso colui che questo ha subìto. Ma ora non mi rallegro di questa sventura, né mi rattristo, per riguardo verso gli dèi e per lui, che è nato da me.
Che faremo dunque? Portarlo qui, o che cosa dobbiamo fare di quello sventurato, per compiacerti? Pensaci! Segui il mio consiglio e non mostrarti crudele verso il tuo figlio sventurato.
Portatelo, che io veda coi miei occhi colui che negò di avere insozzato il mio talamo. Lo confuterò con le mie parole e con la sventura che gli hanno mandato gli dèi!
(Il nunzio esce di scena)
Tu, Cipride, l'animo inflessibile
Trascini degli dèi e degli uomini;
e insieme con te Eros dalle ali variegate,
vestito di celerissime penne.
E vola sulla terra e sul salso mare sonate,
Eros: alato, fulgido d'oro, ammalia colui
d cui assale il cuore con follia
e gli animali montani e marini e quanti
la terra nutre e il sole ardente vede,
e gli uomini ancora.
Tu, Cipride, sola imperi
Su tutti con dignità regale.
(Appare sul fastigio del palazzo, con l'arco e la faretra)
Te, nobile figlio di Egeo, esorto ad ascoltarmi: sono io che ti parlo, Artemide, figlia di Latona. O sventurato Teseo, perché gioisci di questi casi, tu che hai ucciso empiamente tuo figlio, fidando nelle parole menzognere di tua moglie, per una cosa incerta? E certa invece è la tua rovina! Come non ti nascondi per la vergogna negli abissi della terra; oppure mutando vita. Non levi il piede in alto, fuori di questa disgrazia, come un essere alato? Così non ti rimane parte di vita tra gli uomini buoni.
Ascolta dunque, Teseo, lo stato dei tuoi mali. E se non otterrò nulla, almeno ti darò dolore. Per questo venni, a mostrarti l'onestà dell'animo di tuo figlio, perché muoia con gloria; e per svelarti la follia o, in certo modo, la nobiltà di tua moglie. Ferita dal pungolo della dea, che più di tutti è nemica a noi cui è gioia la verginità, si innamorò di tuo figlio. E mentre essa cercava di vincere Cipride col senno, fu perduta contro la sua volontà dalle macchinazioni della nutrice, che svelò a tuo figlio quel morbo, sotto giuramento. Egli,essendo onesto, non seguì quelle parole e non ruppe fede ai giuramenti, nemmeno quando fu offeso da te, egli che è pio. Ed essa, temendo di cadere in biasimo, scrisse accuse menzognere e rovinò con inganno tuo figlio. E tuttavia ti persuase.
Ahimè!
Ti morde, o Teseo, questo discorso? Ma sta' calmo e ascolta il seguito, e piangerai ancor più. Tu sai che avevi da tuo padre tre imprecazioni sicure: e una di esse, o scelleratissimo, hai usato contro tuo figlio, quando potevi contro un nemico! Tuo padre, dio del mare, pensò bene dandoti quanto doveva, perché aveva promesso: ma tu a lui e a me ti riveli un malvagio, tu che non aspettasti prove né voce di indovini: non indagasti, non offristi lunga riflessione al tempo, ma più in fretta di quanto occorreva lanciasti la maledizione contro tuo figlio, e lo hai ucciso.
Signora, che io muoia!
Cosa terribile hai fatto: e tuttavia puoi ancora ottenerne perdono. Cipride infatti volle che questo accadesse, placando così la sua collera. Questa è la legge per gli dèi: nessuno vuole opporsi al desiderio di un altro, e ce ne asteniamo sempre.
Perché, sappilo bene, se non avessi avuto timore di Zeus, non sarei giunta, proprio io, a tanta vergogna da permettere che morisse l'uomo a me più caro fra tutti i mortali. Quanto alla tua colpa, l'ignoranza, per prima cosa, ti libera da malvagità. Inoltre tua moglie, morendo, ha distrutto ogni prova di parole, così da convincere il tuo animo. Questa disgrazia si è infranta su di te soprattutto, ma il dolore anche su me. Gli dèi infatti non gioiscono, quando muoiono uomini pii: ma i malvagi, li distruggiamo con tutti i figli e le case.
Ecco, l'infelice giunge, straziato il biondo capo e il giovane corpo. O dolore delle case, quale duplice lutto si è compiuto in questa dimora, mandato da un dio!
Ahi, ahi, o me infelice, fui rovinato dall'oracolo ingiusto di un padre ingiusto! Sono finito, misero, ahimè! I dolori mi trafiggono il capo e lo spasimo balza nel mio cervello. Férmati, che io abbia tregua in questo corpo esausto! Odiosa coppia di cavalli, allevata dalle mie mani, mi hai distrutto, mi hai ucciso! Ahi, o servi, per gli dèi, toccate piano con le mani il mio corpo piagato! Chi sta al mio fianco destro? Sollevatemi con attenzione, portate tutti insieme questo sventurato, maledetto per l'errore del padre.
O Zeus, Zeus, vedi tu queste cose? Io, l'uomo santo
e pio verso gli dèi, che tutti superavo in saggezza, muovo all'Ade, che mi sta innanzi; e la mia vita è completamente distrutta. Invano, al cospetto degli uomini mi sono affaticato tanto per la pietà. Ahi, ahi! Ancora dolore, dolore mi assale! Lasciate quest'infelice, e venga a me morte soccorritrice. Voi finite di uccidere questo sventurato! Bramo un'arma a due tagli a dilaniarmi, ad addormentare la mia vita! O funesta maledizione di mio padre! Da parenti omicidi, dagli avi antichi proviene questo male: e non indugia, e venne contro di me - perché mai? - che sono innocente di ogni male. Ahimè, che dire? Come liberare la mia vita da questa pena crudele? Il nero notturno fato di Ade addormenti me sventurato!
Infelice, a quali sventure fosti aggiogato! La nobiltà del tuo animo ti ha perduto.
O divina aura profumata! Pur tra le sofferenze ti ho sentito, e il mio corpo ne è sollevato. È in questi luoghi, la dea Artemide?
È qui, o infelice, la più cara a te fra gli dèi.
O signora, vedi me sventurato, come sono ridotto!
Vedo, ma a me non è lecito versar lacrime dagli occhi.
Non hai più cacciatore, non servo -
No, certo; ma tu mi sei caro anche morendo.
- né domatore di cavalli, né custode delle tue statue.
Cipride, la scellerata, ha macchinato questo.
Ahimè, comprendo quale divinità mi ha perduto.
Rimproverando i mancati onori, si adirò con te che sei casto.
E lei sola, vedo, ha rovinato noi tre.
Il padre, e te e terza la consorte.
io piango pur la sventura di mio padre!
Fu ingannato per disegno di un dio.
O padre, sventurato per questa sciagura!
Sono finito, o figlio, non ho più la gioia di vivere.
piango per te, per il tuo eroe più che me.
Figlio mio, fossi morto invece tua!
O amari doni del padre tuo Poseidon!
Così non fossero venuti mai alla mia bocca!
Ma tu mi avresti ucciso certamente, tanto eri adirato allora.
Ero stato privato del senno dagli dèi.
Ah, se il genere umano potesse maledire gli dèi!
Lascia andare: nemmeno sotto le tenebre della terra l'ira di Cipride, secondo il suo desiderio, si sarà abbattuta impunemente su di te, a causa della tua pietà e del tuo animo
nobile. Io infatti con questa mia mano punirò con l'arco infallibile un altro, che tra i mortali le è massimamente caro. A te, infelice, in cambio di questi mali, darò onori grandissimi nella città di Trezene: le intatte vergini, prima delle nozze, recideranno le chiome in tuo onore e no oscuro cadrà nell'oblio l'amore di Fedra per te.
(A Teseo)
E tu, figlio del vecchio Egeo, prendi fra le braccia tuo figlio e stringilo a te. Lo uccidesti senza volere: gli uomini è naturale che errino, se gli dèi lo danno.
(A Ippolito)
A te poi, Ippolito, chiedo di non odiare tuo padre: tu conosci la sorte di cui peristi. Addio! A me non è lecito vedere morti né contaminare la mia vista con aneliti di moribondi. E vedo che tu, oramai, sei vicino a questo male.
(Sparisce)
E lieta va' anche tu, vergine beata! Lascia di buon animo la nostra lunga consuetudine. Poiché lo desideri, io depongo la contesa con mio padre: anche prima infatti obbedivo alle tue parole. Ahimè, già la tenebra scende sui miei occhi. Prendimi, padre, e solleva il mio corpo!
Ahimè, figlio, che fai a me sventurato?
Sono finito, vedo già le porte degli inferi.
E lascerai impura l'anima mia?
No, perché ti assolvo da questa morte.
Che dici? Mi mandi libero dal sangue?
Chiamo a testimone Artemide, signora dell'arco.
Carissimo, come ti mostri nobile verso tuo padre!
Addio anche a te, padre, addio ancora!
Ahimè, come pio e nobile è il tuo animo!
Prega che sia tali i tuoi figli legittimi.
Non mi lasciare, figlio: sii forte!
Fu, la mia forza. Padre, sono finito: coprimi al più presto il viso col peplo.
(Spira)
(Rientrando nella reggia col seguito, che porta il cadavere di Ippolito)
O inclita terra di Atene e di Pallade, di quale uomo resterai priva! Me sventurato! Quante volte mi ricorderò, Cipride, dei tuoi delitti!
(Mentre il coro esce da destra)
Inatteso giunge questo dolore, comune a tutti i cittadini. Molte lacrime cadranno: la fama dei grandi degna di compianto molto a lungo dura.