Testo

GLI AMORI

DI

ERO E LEANDRO

DI MUSEO GRAMMATICO

Narrami, Dea, la testimonia face

Degli amori furtivi, e gl'imenei

Che col nauta notturno il mar solcaro,

E il tenebroso nodo al guardo ignoto

Dell'Aurora immortal, e Sesto e Abido (l)

Ove i notturni fur sponsali d'Ero.

Già già Leandro il nuotatore ascolto

E in un la face che fu nunzia eccelsa

Del venereo messaggio e nunzia d'Ero,

A cui, mentr'essa fea sue buje nozze,

Le nozze ornava. Era d'Amor l'immago

In lieti modi in quella teda scolta;

E ben doveva dall'Etereo Zeus,

Dopo compiuto il suo notturno uffizio,

Esser degli astri all'alto coro aggiunta,

E nomarsi d'amor pronuba illustre,

Perché già fu delle penose cure

Dell'Idalio fanciul chiara ministra,

E custodì del vigilante imene

L' annunzio, prima che il nemico vento

Coll'importuno suo soffio spirasse.

Su via; meco a cantar dunque t'unisci

Il fin che lei col bel Leandro estinse.

Di Sesto a fronte è la città d'Abìdo,

Al margo ambe del mar, ambe vicine:

Ed il Divo Cupido teso l'arco

Ad ambe le città vibrò uno strale

Che un garzoncello ed una vergin arse.

Ei l'amabil Leandro si nomava,

Ero la vaga e casta donzelletta:

Ella Sesto abitava ed, egli Abido;

D'ambe queste città stelle venuste

Fra lor simili. O tu che la passassi,

T'arresta a ricercar di certa torre

D'onde sporgeva la Sestia Ero il lume

Ch'era di scorta al bel Leandro amante;

Della vetusta Abido ancor ricerca

L'ondisonante stretto, che la morte

E l'amor piange di Leandro ancora.

Ma come mai Leandro, che d'Abido

Le contrade tenean, d'amor s'accese

Per Ero, ed essa in laccio egual fu stretta?

Costei che in sorte regal sangue aveo.

Dell'Afrodisia Diva era Ministra.

Lungi dal patrio tetto, entro una torre

E delle nozze non per anco istrutta

Lunghesso il mar propinquo avea dimora.

Nuova Ciprigna, ma modesta e casta

D'altre donne non mai s'unia alla schiera,

Né il pie portò giammai fra i graziosi

Balli di fresca gioventù a lei pari;

Evitando così dell'invidiose

Femmine il livor tristo, che nel seno

Destasi lor per la beltade altrui.

Ma sempre Citerea Afrodite placava,

Ed era spesso a conciliarsi intenta

Co' sagrifici la Celeste Madre (2)

E in un d'Amor il Dio: tanto l'ignita

Faretra paventava. Eppur indarno

Tentò sottrarsi agli infuocati dardi.

Delle gran feste popolari il tempo,

Che d'Adone in onore e di Ciprigna

Si celebrano in Sesto (3), era omai giunto.

Ed a caterve, s'affrettavan tutti

Per giugnere colà nel sacro giorno

Gli abitator dell'isole vicine,

Quelli d'Emonia (4) pur ed altri ancora

Della marina Cipri (5), né veruna

Donna vi fu che in le città restasse

Di Citera (6), né alcuno danzatore

Che non scendesse dalle cime eccelse

Dell'odoroso Libano (7), né quello

Che Frigia (8) accoglie nel materno seno,

Né cittadin della vicina Abido,

Né garzon che piagato ha il cor d'amore;

Poiché questi accorrendo ovunque fama

Grido diffonde di solenni feste,

Non tanto è tratto dall'amor dei Numi

Quanto dal bel di vagheggiar desio

Le vergini leggiadre insieme accolte,

Pel tempio della Dea iva a diporto

La bella vergin Ero, e tramandava

Lampi dal viso di modesta luce,

Qual la nascente suole argentea luna.

Il colmo delle sue candide gote

Di porpora lucente era dipinto,

Come apparir a due color si vede

Rosa gentil dal buccio suo dischiusa.

Sembravano di rose un prato ameno

Le membra sue vezzose e dilicate

Che un bianco vel coprià leggiadramente.

S'ella movea sotto suoi piè le rose

Pompa facean di lor natia bellezza,

E dalle membra tutte traspirava

Folto drapello di venuste grazie.

Inver mendaci fur gli antichi allora

Che disser tre soltanto esser le Grazie,

Mentre della bell'Ero un occhio solo

Splendea di cento e cento Grazie adorno.

Come potea trovar la Cipria Dea.

Sacerdotessa di costei più degna?

Vincendo assai dell'altre donne il pregio

Parca d'Amor novella Genitrice.

Le molli percuoteva alme flessibili

De' giovanetti, né di loro un solo

Un sol non v' era che per lei piagato

Non desiasse sua compagna averla.

Ella errava pel tempio, e l'alme intorno,

Gli occhi, i pensier del maschil sesso avea;

Sicché alcun di que' giovani rapito

Dallo stupor sciolse in tai detti il labbro.

A Sparta fui, Lacedemone (9) io vidi,

Ove di belle esser sappiam la gara;

Pur simile a costei colà non scorsi:

Tanto pregievol è, tenera tanto!

E, né mal m'apporrò, quivi Ciprigna

Di sue giovani Grazie ave fors'una.

Stanco già di mirar, non sazio ancora,

Varcare io gradirei l'ombre Letée

Dopo che imene stretto seco aveasi;

Né un Nume esser d'Olimpo io curerei

Quando nel tetto mio fosse mia sposa....

Ma se appressarmi, o Citerea, non lice

Alla vergine tua vaga Ministra,

Dammi la sposa deh che le somigli!...

Così questi parlava. Intanto altrove

Chi la ferita rinserrava in core,

A rimirar tante bellezze intento

In sospiri profondi si struggeva.

Ma come tu, miser Leandro, hai visto

L'inclita verginetta, al cor sdegnasti

Stimoli occulti a esacerbar la piaga.

E all'improvviso dagli ardenti strali

Domo, volevi abbandonar la vita,

Se tua non fosse la bellissim Ero.

Al dolce lampeggiar de' sguardi suoi

La vampa in esso s'accrescea d'amore,

Ed il cor con vieppiù d'ardore e fuoco

Ardeva tutto alla crudel violenza;

Giacché insigne beltà di donzelletta

D'ogni difetto scevra ognun percuote

Rapida più d'una saetta alata.

L'occhio è la strada, e dal corrusco lampo

Dell'occhio feritor s'apre la piaga

Che va l'interno a ricercar dell'uomo.

Ei fu compreso in questo punto e stretto

Dallo stupor e dall'audacia insieme

E dalla verecondia e dal tremore.

Il cor gli palpitava in fiera guisa,

Né del pudor lo ratteneva il freno.

Ma intanto ch'ei di maraviglia preso

La perfetta di lei beltà mirava,

Toglieagli Amore ogni rossor dal volto.

E omai spezzato ogni primier ritegno

Inverecondo il piè tacitamente

Ver lei moveva, e in faccia a lei fermossi.

Alla vaga donzella obbliquamente

I suoi volgeva lusinghieri sguardi,

E con mute espressioni e cenni accorti

Le seduceva il vagheggiato core.

Ma di Leandro ella conobbe appena

L'ingannevol desio che si godette

Di sua beltade, e molte volte ancora

Corrispondendo con occulti, segni

Taciturna celossi il bel sembiante,

E a lui rimpetto l'inchinò, di nuovo.

Egli che vide gli amor suoi già noti

Alla donzella, e pur non n'era schiva,

Tutto esultava nel segreto petto.

Or mentre s'attendea furtivo istante

Dal giovane Leandro, in ver l'occaso

Già già scendeva la diurna luce

A raccorre il suo lume in occidente,

E dall'opposta parte espero apparve

Dell'ombre taciturne alma foriera.

Tosto ch'ei vide l'orizzonte intero

Coperto della notte atro-vestita,

Arditamente alla fanciulla amata

S'appressò, e distringendo in dolci modi

Sue rosee dita, dal profondo seno

Gravi e dolenti ne traea sospiri.

Ella taceva, e disdegnosa in atto

La rosata sua mano a se ritrasse.

Ma ei ben s'arride che da questi segni

Dell'amabil donzella era la mente

Più docil resa, e pien d'audacia allora

Colla man le scotea la varia veste,

E dell'augusto venerando tempio

Alle soglie remote ei la trace.

Ero però la vergine diletta

Con lento passo i passi suoi seguia,

Quasicchè ritrosetta lo sdegnasse;

E minacciosa con femminee voci

Così proruppe al garzoncel d'Abido:

Quale, o straniera follia t'ingombra? E dove

Me guidi vergin sventurata ahi! troppo?

Altrove il piè rivolgi, e il manto lascia,

Ed allo sdegno ed al furor t'invola

De' genitori miei ricchi e possenti.

Non lice a te dell'Afrodisia Diva

La Ministra toccar: né facil puossi

D'una vergin godere il casto letto.

In guisa tale a minacciarlo imprese,

Come il decor chiedea di verginella.

Ma dopo che Leandro ebbe il furore

Delle minacce femminili udito,

Delle vergini scorse i segui, ond'esse

Si palesan per vinte, ché allorquando

Si fan le donne a minacciare i giovani

Son le stesse minacce messaggere

D'amorosi congressi. Ad essa intanto

La colorita gola egli baciando

Che tutta oliva di soavi essenze,

Punto d'amor articolò tai detti:

O Afrodite mia cara, dopo Afrodite!

O dopo di Minerva, mia Minerva!

Poiché chiamarti alle terrene donne

Non voglio egual, ma del Saturnio Zeus

Alle figliuole assomigliar ti deggio.

Felice il genitor che ti produsse,

E la madre beata da cui fosti

Tu partorita, e più felice il grembo

Che t'ha portata in sé! ... Ma deh le mie

Calde preghiere ascolta, e dell'ardore

Che mi trasporta a tanto impietosisci!

Quale tu sei di Citerea Ministra

L'opre di Citerea seguir ti piaccia.

I sacri della Dea riti nuziali

T'appresta adunque a celebrar, ché male

Ad Afrodite s'addice per Ministra

Una casta donzella. Essa non ama

Vergini avere. Che se poi di questa

Le dolci leggi ed i fedeli arcani

Apprender vuoi, sono le nozze e il letto.

S'è ver ch'ami Ciprigna, degli amori

Servi all'amabil legge che la mente

Sa raddolcir. Me tuo supplice accogli

E sposo ancor, se vuoi, giacché Cupido

Mi cacciò co' suoi dardi, e mi ti ha preso,

Come il  veloce auriverga Ermes

Trasse servo d'amore Ercole audace

Alla Jardania Ninfa. Ma dal saggio

Ermes scorto non son io; guidommi

Cipride a te. Non debbe esserti occulto

Come l'Arcadia vergine Atalanta,

Che dell'amante Melanione il letto

Un dì fuggia per conservar la sua

Verginità, Afrodite irata poi

Quel ch'ella non amò crudele in pria

Fé sì che il cor di lei tutto occupasse.

E tu pur cedi persuasa, o cara,

Per non destar di Citerea lo sdegno.

Così quegli, parlò d'amor facendo

L' anima accesa gareggiar co' detti,

Ed in tal modo persuasa ei vinse

Della donzella la ritrosa mente.

La vergin muta allora in terra fisse

Lo sguardo, onde celar la rubefatta

Guancia per lo pudor. Del piè sull'orma

Radea del suol la superficie intanto,

E di vergogna in atto agli omer suoi

Spesso, intorno stringea la propria veste.

Di persuasion tutti eran questi

Espressi segni, ed il silenzio istesso.

In vergin vinta è la promessa al letto.

E già d'amor le riscaldava il seno

Un commisto ad amar stimolo dolce,

E 'l suo vergine cor d'un grato fuoco

Dolcemente abbracciava, e alla bellezza

Dell'amabil Leandro istupidiva.

Or mentre al suol tenea china la fronte

Non mai colla d'amor vampante faccia

Erasi stanco di mirar Leandro

Della fanciulla il delicato collo.

Ed essa alfin la sua voce soave

Ver Leandro die fuor, dal volto il molle

Rossore di vergogna distillando:

Colle parole tue le pietre istesse

Moveresti, o Stranier. E chi del vario

Parlare t'insegnò gli astuti giri?

Ohimè !... chi mai nella mia patria terra

Chi ti guidò?...Son vani i detti tuoi,

Tutti son vani. Poiché tu straniero

Errante e infido come mai potresti

Far che il tuo fosse all'amor mio congiunto?...

Pubblicamente in sacri nodi unirci

A noi non lice, ed i parenti miei

Lo vieterian. Se poi ospite ignoto

Tu nella patria mia volessi starti

Non potresti celar l'occulta venere,

Che la lingua dell'uom tende all'oltraggio

Dell'altrui fama, e ciò che alcuno oprato

Ha nel silenzio ode eccheggiar per trivj.

Or dimmi il nome tuo, ned occultarmi

Quello del patrio suol, e acciò ti sia

Palese il mio, l'inclito nome ho d'Ero.

In questa torre, che sonanti i flutti

Circondan col fragor, la mia magione

Vi sta sublime, in cui sola abitando

Con un ancella mia, dinante a Sesto

Sovra l'acque profonde, ho il mar propinquo

Per severo voler de' miei parenti.

Né le fanciulle a me d'etade eguali

Mi son vicine, né presenti ho mai

De' giovani le danze: io notte e giorno

Sempre e solo all'orecchie ho il roco suono

Del mar che fiero romoreggia ... E in questo

Favellar nascondea sotto la veste

La rosea guancia che il pudor di nuovo

Così dipinse; e sé medesma ancora

Di sue parole riprendea già dette.

Ma dall'acuto spron d'amor percosso

Il giovane Leandro, iva pensando

In qual modo pugnar nell'amoroso

Certame egli dovesse, dacché vario

Ne' suoi consigli Amor co' dardi suoi

L'uomo doma, ed all'uom ch'era piagato

La ferita risana, ed a coloro

Di cui domina il core , ei ch'è d'ognuno

Lo scaltro domator, consiglier fassi.

Ora egli stesso all'amator Leandro

Porgeva ajuto; onde alfin quei gemendo

In tali sciolse maliziosi accenti:

Vergin! per amor tuo l'aspero flutto

Rappasserò , benché di fuoco ei bolla;

E fosse l'onda innavigabil, io

No ch'io non temo il minaccioso flutto

Per venir al tuo letto , né il sonoro

Fremer del mar che mugge. Ma portato

Sempre pel mar di notte umido sposo

A nuoto solcherò dell'Ellesponto (10)

La corrente infedel; non lungi, siede

Di fronte a questa tua la patria mia

D'Abido la città. Soltanto accendi

Dall'eccelsa tua torre una lucerna

Che a me rincontro le tenebre allumi:

E così in riguardarla un amorosa

Nave io mi sembri; il lume tuo di stella

Guidatrice sarammi, in cui fissando

Contento il guardo, da me fian negletti

L'occidental Boote, il fiero Orione,

E del Plaustro il non mai bagnato carro,

E venga intanto della patria tua,

Che m'è posta a rimpetto, al dolce porto,

Ma bada, o cara, che de' venti il grave

Soffiar non spenga il lume (ond' io ben tosto

L'anima esalerei), lume che chiaro

Duce fia di mia vita! S'anco poi

Veracemente tu volessi il mio

Nome saper, Leandro ho nome, sposo

Della ben ghirlandata Ero venusta,

Così costor con clandestine nozze

Concertavan d'unirsi, e giurar fede

Di conservare i lor notturni amori

E il messaggio d'Imene alla presenza

Della lucerna: ella d'esporre il lume,

E questi di solcare i lunghi fiotti.

Trascorsa poscia de' veglianti nodi

La grata notte, l'un dall'altro astretti

Dalla necessità si separaro;

Quella alla propria torre, ei per le folte

Ombre segnando della rocca il luogo

Per non smarirsi, a nuoto giva al vasto

Popol d'Abido che profondo ha il piede.

Ed alle occulte maritali pugne

Essi agognando nell'intera notte,

Pregar sovente che venisse il buio

Del talamo ministro. Omai sorgea

La caligin di notte in negro manto

A qualunque mortale a recar sonno:

Non già a Leandro innamorato. Il cenno

Questi del mar sonante appresso il lido

Attendea delle nozze alto - lucenti,

E la teda feral nunzia tremenda

Del talamo segreto, avido ognora

Scorger da lungi desiava. Allora

Che l'ali sue caliginose appieno

Ebbe l'oscurità stese d'intorno,

Trasse Ero fuori la facella: e questa

Subito accesa, il pargoletto Dio

Del smanioso Leandro il cuore accese,

Ond'essa ardente in un con esso ardeva.

Ma delle furiose onde del mare

Lo strepitoso rimbombar udendo

Alquanto in pria tremava , indi l'ardire

Svegliò nel seno, e a confortar si diede

L'anima impaurita con tai detti:

Implacabile è il mar, crudo l'amore:

Ma è del mar l'acqua, e mi divora interno

Fuoco d' amor: di fuoco adunque, o core,

Fatti intorno lorica, e senza tema

Va l'acqua ad affrontar ch'ivi si spande:

Corri all'amor ..... Perché paventi i flutti?

Non sai che Citerea dell'onde è prole?

Ch' ella domina il mare e i nostri affanni?...

E così detto dalle vaghe membra

Con ambedue le man spogliò la veste,

Al suo capo la strinse, e dalla ripa

Balzò lanciando il corpo suo nel mare,

E della face fiammeggiante ognora

S'affrettava a rincontro, ed a sè stesso

E remigante e carco e nave egli era.

Intanto in vetta la lucifer' Ero

All'alta torre proteggea sovente

Col vel la face dai funesti soffi

Da quella parte ove moveasi il vento;

Finché Leandro affaticato giunse

Di Sesto al naval porto, e alla sua torre

Ella il condusse. E l'anelante sposo

Che ancor delle spumose acque del mare

Stillanti area le chiome, dalla porta

Nel silenzio abbracciato insin guidollo

Nel più riposto verginal ricetto

Che già tenea per queste nozze adorno.

Quivi ella tutto rasciugogli il corpo,

E d'un unguento che di rose oliva

L'unse, tal che del mar svanì l'odore.

Poscia nel letto spiumacciato, tutto

Stringendo il palpitante ancor marito

Al suo fervido petto, in questi motti

Più che mel dolci sprigionò la voce:

A te che tanto sofferisti, o sposo,

Quanto giammai sposo verun sofferse,

Sì, o sposo, a te che sopportasti tanto

E la sals'onda basti ed il piscoso

Odor del mar che mormorante freme:

Qua nel mio seno i tuoi sudor deponi.

Tacque ciò detto: ed ei tosto il bel cinto (11)

Le sciolse, e dell'amica Dea Ciprigna

Si assoggettaro alle gradite leggi.

Si fer le nozze, ma non v'eran danze;

Eravi il letto, ma non v'eran gl'inni;

Né lodò vate alcuno il sacro giogo,

Né il talamo nuzial fu reso chiaro

Dallo splender di faci, né i piè mosse

Agili alcuno ad intrecciar carole,

Né il padre né la madre ha l'imeneo

Cantato. Ma il silenzio che nell'ore

Sacre a sponsali rifaceva il letto,

Il talamo piantò; la sposa ornaro

Caliginose tenebre; e de' canti

Degli imenei fu privo il maritaggio.

Era però pronuba lor la notte,

Né lo sposo Leandro unqua si vide

Palesamente dall'aurora in letto:

Che nuotando di nuovo ci ritornava

Al situato a dirimpetto Abido

Spirante ancora le notturne nozze,

Ma non già sazio. Ed Ero avvolta in lungo

Manto, ingannando i genitori suoi,

Era vergine il dì, sposa la notte:

E spesso ambo devoti alzar preghiere

Acciò scendesse in ver l'occaso il giorno.

In tal guisa costor cauti celando

Del reciproco amor la dura possa

D'occulta Afrodite si prendean diletto.

Ma di lor vita assai fu breve il tempo,

Né de' vaghi imenei fruiro a lungo;

Ché sovraggiunse del brinoso verno

La rigida stagion che vorticose

Volvea procelle orrende, e le non ferme

Cavitadi e del mar l'acquoso fondo

Sbattean col soffio gl'iemali venti

E tutto percuotean col turbo il mare;

E già il nocchier la tempestosa e infida

Onda fuggendo, al bipartito porto

La sbattuta spingea negra sua nave;

Ma te d'iberno procelloso mare

Non ritenne il timor, Leandro audace.

Il nunzio appena dell'usate nozze

T'avea mostrato dalla torre il lume,

Che fosti spinto al crudel cenno ed empio

La furibonda a disprezzar marea

Del verno all'apparir Ero infelice

Ben dovea da Leandro esser disgiunta,

Né accender più l'astro forier del letto.

Ma l'astrinse l'amor, l'astrinse il fato,

E lusingata, oh Dio! L'orribil face

Delle Parche mostrò, non più d'Amore.

Era la notte, e più perversi i venti,

Venti che intorno con iberni soffi

Sferzavano crudeli, ivan spirando,

E aggrovigliati fieramente insieme

Si scagliavan del mare in sulla sponda;

Allor che preso di speranza il core,

A traverso portato era Leandro

I sonanti marittimi imenei.

Già travolgeasi sovra il flutto il flutto,

S'accavallavan l'onde, il mar coll'etra

Già si mesceva, e la percossa terra

Scoteasi anch'essa al battagliar de' venti.

Euro spirava a Zefiro dincontro,

E Noto irato ad Aquilon protervo

Fiere minaccie inviava, ed incessante

Un rimbombo scorrea pel mar sommosso.

Ma Leandro meschino entro gli immiti

Vortici intanto, i voti suoi porgea

Supplice spesso alla Marina Afrodite,

E spesso ancora al Re del mar Nettuno,

Né immemore lasciò l'Attica Ninfa

A Borea crudo. Ma di nullo ajuto

Gli fur cortesi, e Amor, lo stesso Amore

Delle Parche la forza invan trattenne.

Dal rio furor degli adunati flutti

Che il percotevan con opposta fronte,

Qua e là vagante egli venia portato.

Mancò vigore al piè, di tutta lena

L' irrequiete palme esauste furo;

Molti per gola trascorreangli d'acqua

Ampi rovesci, e suo mal pro l'ingrato

Umor bevea dell' implacabil mare.

E già vento crudel l'infida estinse

Ardente face, e di Leandro oh Dio!

Di lui che chiama in su le ciglia il pianto,

E la vita e l'amor con essa estinse.

Mentre indugiava quei, con vigil occhio

Ero si stava in angosciose cure.

Surse l'aurora alfin, pur non vedea

Ero il consorte. D'ogni intorno il guardo

Per l'immenso del mar dorso ella stese,

Acciò veder, se, poiché spento il lume,

In qualche parte il caro sposo errasse.

Ma quando al piede della torre il scorse

Pesto da scogli, estinto, allor la vaga

Leggiadra veste si squarciò dal petto,

E da sé stessa dall'eccelsa torre

Capovolta nel mar precipitò.

Così sul morto sposo Ero morìo,

E si godero ancor nel fato estremo.

NOTE.

(1) Città che un tempo trovavansi l'una opposta all'altra sulle rive dell'Ellesponto, da cui venivano frammezzate; la prima posta sulla parte Europea, la seconda sull'Asiatica, alla distanza di sette stadi l'una dall'altra.

(2) Gli antichi distinguevano due Afrodite, una Celeste ed una Terrestre. La prima presiedeva agli amori casti e puri, l'altra per l'opposto agli sregolati ed Impudichi. Vedi Platone nel Convivio e Pausania nei Beotici.

(3) In questa ed in altre città della Grecia celebravansi feste solenni in onore di Adone e di Afrodite, che con un solo nome venivano Adonie appellate. Gli amori che passarono fra questa Dea ed il vago giovanetto Adone, diedero motivo all'istituzione di un tale culto. Vedi Meursio nella sua Grecia Festiva Lib. I.

(4) Questa Provincia era anticamente conosciuta sotto diverse denominazioni, generalmente però sotto quella di Tessaglia. Trovavasi in Grecia in poca lontananza dall'Arcipelago. Ora è nota sotto il nome di Janna, e forma parte della Turchia Europea.

(5) Isola del mar mediterraneo sulla parte dell'Asia posta fra la Cilicia e la Siria. Ella è celebre nell'antichità pagana pel tempio famoso che ivi era consacrato ad Afrodite. Si conosce tuttora sotto la medesima denominazione.

(6) Varie erano le città che così si chiamavano, ed è perciò che il Poeta varie ne accenna. Una trovavasi nell'isola di Cipri, una in Tessaglia ed una ancora nell'isola dello Stesso nome, la quale ora vien detto Cerigo.

(7) Gran monte dell'Asia ai confini della Palestina e della Siria. Egli è formato da una catena di alti monti, i quali prendono principio vicino a Tripoli verso il Mar Rosso, e si estendono fino al di là di Damasco verso l'Arabia Deserta. Dicesi odoroso dall'abbondanza d'incensi e di cedri che vi si raccolgono.

(8) Provincia dell'Asia minore. L'impero che vi ebbero i Trojani, e le ricchezze di Attalo che ne fu Principe, l'hanno resa  assai nota nei fasti dell'antichità.

(9) Lacedemone provincia della Grecia nel Peloponneso rive dell'Eurota, di cui Sparta era la città capitale.

(10) Canale o stretto ora chiamato dei Dardanelli o di Gallipoli, il quale congiunge l'Arcipelago alle Propontide.

(11) Era questo un ornamento muliebre. Pompeo Festo parlando di esso, cigulo, dice , nova nupta pracingebatur, quod vir in lecto solvebat; ed anche Varrone novus maritus tacitus taxim uxoris solvebat cigulum.