Afferma Diodoro, riferendosi a fatti avvenuti nel 465 a.C.:
Si verificavano questi fatti, quando Ducezio, il capo dei Siculi, maldisposto nei confronti degli abitanti (Siracusani) di Catane che si erano resi responsabili di aver privato i Siculi delle loro terre, marciò contro di loro (…) sconfitti in parecchie battaglie, furono scacciati da Catane e presero possesso dell’attuale città di Etna, che in passato aveva il nome di Inessa, mentre gli originari abitanti (Siculi) di Catane tornarono ad abitare, dopo lungo tempo, la loro città. (Diodoro - Biblioteca Storica – XI, 72, 3)
Si evince dal passo sopra riportato che Inessa ed Etna sono nomi assunti dalla medesima città in diversi periodi storici.
Riteniamo che Inessa/Etna sia identificabile con la città di Adrano.
Per provare tale tesi è necessario seguire il ragionamento sotto proposto, prendendo le mosse da un noto passo di Diodoro dal quale si è originata la comune convinzione, da noi contestata, secondo la quale Adrano sarebbe stata “fondata” da Dionigi nel 400 a.C.
“Dionigi fondò in Sicilia una città proprio sotto la vetta dell’Etna e la chiamò Adrano, come un famoso santuario”. (Diodoro - Biblioteca Storica – XIV, 13)
Sulla base di tale affermazione si è comunemente ritenuto che Adrano sia “nata”, per mano di Dionigi, nel 400 a.C. Noi riteniamo invece che non si tratti di fondazione nel senso comune del termine, ma piuttosto di una “rifondazione” ossia della ridenominazione di una città pre-esistente.
Dalle fonti letterarie apprendiamo che per i Greci la fondazione di una città non consisteva solo nella edificazione materiale della stessa, ma anche nella “rifondazione” e nuova denominazione di una città pre-esistente, della quale veniva annullata la cultura indigena al fine di sovrapporvi quella greca.
Si consideri, quale esempio, che nel 475 a.C. Gerone I, tiranno di Siracusa, conquista Catania e vi stabilisce la sua reggia; deporta gli abitanti di Catania a Lentini; fa trasferire a Catania i fedeli siracusani, sostituendo alla precedente etnia sicula quella greca; rinomina inoltre la città con il nome Etna.
Ad evitare possibili equivoci si precisa che, come si comprende dal testo diodoreo citato inizialmente relativo alla conquista di Catane da parte di Ducezio nel 465 a.C., il nome Etna attribuito da Gerone a Catania ebbe breve durata; soprattutto si evidenzia che esisteva un’altra città, diversa da Catane, denominata Etna e precedentemente Inessa.
Perché non si ritiene possibile la “fondazione”.
La fondazione di una città, intesa nel senso comune di nuova edificazione, da parte del tiranno Dionigi avrebbe implicato un contesto storico di pace, condizione necessaria per sostenere economicamente e logisticamente l’edificazione di una città, disponibilità di tempo e di risorse. Tali condizioni appaiono assolutamente incompatibili con la realtà storica del momento, per le ragioni sotto elencate:
La “rifondazione” di Adrano
Riteniamo che Dionigi abbia sconfitto una città pre-esistente (identificabile con Inessa/Etna) e, al fine di sancire il proprio potere, la abbia rinominata Adrano, alla maniera dei Greci di Sicilia.
Non solo tale costume era usuale tra i Greci, ma un simile evento di rinominazione è rintracciabile nelle Storie di Erodoto (lib. I,164) a proposito di fatti avvenuti in Medioriente. Qui Arpago, generale di Ciro, assedia la città greca di Focea e chiede di parlamentare con il Senato della città al fine di trovare una via d’uscita onorevole per entrambe le parti. Afferma che “si sarebbe accontentato se i Focesi avessero abbattuto un solo propugnacolo delle mura e consacrata (abbattuta) una sola abitazione”.
Riteniamo che anche Dionigi si sia accontentato di un onorevole compromesso col Senato o con la classe dirigente o sacerdotale della città di Etna: per questo motivo la città avrebbe assunto proprio il nome del dio locale.
Così scrive Strabone:
“Vicino Centuripe c’è la città di Etna (… ); essa dà accoglienza a quelli che salgono sul monte (Etna) e fornisce ad essi la guida: è là (dalla città di Etna) che inizia la zona della vetta. Le terre intorno sono nude e cineree, coperte di neve d’inverno; in basso sono occupate da foreste e piantagioni di ogni specie”.
Tra le città vicine a Centuripe, Adrano è quella che maggiormente corrisponde a tale descrizione geografica. Infatti, nessun’altra città che sia posta al di qua del fiume Simeto può dirsi vicina a Centuripe come lo è Adrano. Nessun’altra può definirsi parte stessa del vulcano.
Cicerone nelle Verrine afferma che i campi di Etna sono limitrofi a quelli dei Centuripini. L’avvocato elenca con estrema precisione tutte le città, i paesi, i villaggi della Sicilia, ma stranamente non nomina la ricchissima città di Adrano: riteniamo che tale incomprensibile silenzio fosse dovuto al fatto che egli avesse utilizzato il vecchio nome Etna, probabilmente non a caso in quanto in tal modo intendeva la prestigiosa storia antitirannica della città, quasi come un monito nei confronti del “tiranno” Verre.
Tucidide racconta in La Guerra del Peloponneso di una ambasciata degli Ateniesi nella città di Centuripe, durante i preparativi della guerra nel 414 a.C. Egli afferma che gli Ateniesi, rientrando da Centuripe per recarsi a Catania, dove avevano il loro quartiere generale, durante il tragitto bruciano i campi di grano degli Inessei e successivamente quello degli Hyblei cioè dei paternesi. Da questo passo si evince chiaramente che, nel tragitto percorso dagli Ateniesi da Centuripe per Catania, Inessa\Etna sorgeva prima di Paternò
Dunque, dalle inconfutabili fonti letterarie apprendiamo che Etna si chiamava, in tempi precedenti, Inessa, mentre dalla descrizione geografica ed orografica di Etna si evince che Innessa\Etna coincide con Adrano.
Tutte le fonti letterarie antiche concordano sull’origine indigena del tempio del dio Adrano e dei suoi figli Palici; a tale culto si può aggiungere quello della ninfa Etna, moglie del dio e madre dei Palici. Tale triade divina è attestata anche in Grecia (Zeus-Era-Atena), in Svezia (Odhino-Freja-Tor), nel Lazio (Giove-Giunone-Minerva). L’area geografica in cui era praticato il culto tributato alla divina famiglia adranita si estendeva dalla città di Adrano, come afferma Eliano citando Ninfodoro, fino al fiume Simeto ove si trova l’ara degli dèi Palici e le due fonti che rappresentano la loro personificazione. L’antico e prestigioso culto del dio Adrano, risalente all’epoca Sicana, di migliaia di anni anteriore a Dionigi, non può essere stato celebrato in un luogo solitario e lascia presumere l’esistenza di una città sorta in prossimità del tempio, tanto più che apprendiamo da Plutarco (Vita di Timoleonte) che fino al 344 a.C. Adrano era meta di pellegrini.
Inoltre si attesta, nel territorio adranita, una cospicua antropizzazione fin dal Neolitico.
Ed ancora: i famosi bronzi del ripostiglio del Mendolito, che per volume costituiscono il maggiore ritrovamento rispetto alle altre stazioni del periodo pre-greco, lasciano presumere la presenza di una fonderia finalizzata alla produzione di armi ma anche di ex voto per il vicino tempio dei Palici, sito al Mendolito, e per il tempio del dio Adrano, posto nella città di Adrano,come affermato da Ninfodoro e come si evince in Plutarco nella Vita di Timoleonte. Pertanto Adrano e la cittadella del Mendolito avrebbero fatto parte di un unico insediamento.
Gli antichi erano avvezzi ad attribuire dei soprannomi a individui che nel corso della propria vita manifestavano qualità somatiche o caratteriali particolarmente significative. Se il colore dei capelli era di un rosso particolarmente acceso, l’individuo portatore di questa caratteristica veniva chiamato Rutilio o Rutulo o ancora Ruth se donna, se manifestava una saggezza fuori dall’ordinario veniva apostrofato Salomone, da sal sale e mun mente e così via.
Il nome Adrano risulta formato dall’accostamento dei lessemi Odhr-furioso ed Ano-Avo/antenato e significa pertanto L’Avo furioso o La furia dell’Avo con riferimento alla manifestazione violenta della divinità. Del resto è un luogo comune che la divinità si manifesti violentemente; Omero afferma che “temibili sono gli dèi quando si manifestano in piena luce”; agli Ebrei la divinità si mostrava ora come turbine di fuoco ora come lampo accecante.
Traducendo l’aggettivo Odhr con il termine furioso, si è fatto consapevolmente riferimento alla lingua parlata dai Siculo\Sicani, riconducibile, a nostro parere, ad un’antichissima lingua parlata nel nord Europa, assimilabile in parte all’antico alto tedesco. Non a caso l’aggettivo Odhr veniva utilizzato per indicare Odino, il dio degli Scandinavi.
Il teonimo Adrano non è il solo nome riconducibile ad una lingua nordica, lo sono anche quello di Teuto, principe di Adrano quando questa si chiamava Innessa; quello di Etna, nome della ninfa moglie del dio, del vulcano e probabilmente della figlia di Teuto, ancora attuale in Germania nella variante di Tina, in Svezia e in Irlanda (Eithne); l’aggettivo Palici e Delli riferito ai figli del dio Adrano; il nome della contrada nella quale insiste la fonte degli dèi figli di Adrano, denominata Favare, nome composto da Fe-sacro e vara-acqua dal momento che vi scorrevano acque ritenute sacre; il toponimo Innessa che significa il cibo dentro, con allusione alla fertilità del luogo.
Anche per la traduzione della pietra urbica del Mendolito è stata utilizzata la lingua nord-europea. Infatti, parole come Akara (Aker in tedesco), Teuto (etnico che sta per Teutone), vara (Wadar in a.a.t), veregaeso (equivalente del lombardo vergobreto che designa una carica politica) sono chiaramente riconducibili all’antica lingua nord-europea.
La conformazione della pietra, che ha una base rotonda e forata affinché potesse contenere un’anima di ferro che la tenesse salda ad una base, lascia intuire che la stele fosse stata posta, a modello di quelle che si ritrovano in nord Europa, chiamate runiche a motivo dell’alfabeto utilizzato, in posizione verticale ed in un altro sito rispetto a quello dove è stata rinvenuta. La grafia priva di stile, piena di errori e riprese, lascia presumere non tanto un’esposizione pubblica quanto piuttosto una fattura voluta da un privato cittadino, magari facoltoso, al fine di esprimere gratitudine ed elogiare il principe Teuto, il quale aveva effettuato opere di bonifica nel terreno agricolo industriale del Mendolito.
Abbiamo separato i lessemi della scriptio continua come segue:
Jam akaramme askaag…es g..dTeutoveregaiesoekad vara iead
Riteniamo, ricorrendo alla lingua nord-europea, che la traduzione sia la seguente:
Questo territorio (agricolo) Teuto, principe consacrato, utilizzando l’acqua del fiume (vara) rese fertile
La pietra, ritrovata nella seconda metà del Novecento, nel 1962 venne affidata dagli Adraniti alla sovraintendenza siracusana per consentirne lo studio della lingua. Non ci risulta che tale studio abbia portato a dei risultati, inoltre la riproduzione dell’iscrizione è priva di quanto inciso nella faccia non visibile della stele.
Così denominata da tempo immemorabile, come afferma lo storico patrio Sangiorgio Mazza, si trova in un paesaggio suggestivo e costeggia il lato sinistro del fiume Simeto. Sul fiume insiste un enorme masso su cui sono scavate due vasche funzionali ai sacrifici in onore ai due gemelli divini: gli dèi Palici, figli di Adrano ed Etna. Ma la valle delle Muse inizia un chilometro circa più a monte rispetto a detta ara, dal luogo ove scaturiscono due fonti d’acqua, denominate una acqua chiara l’altra acqua scura, che costituiscono la manifestazione dei gemelli divini e simbolicamente esprimono il concetto di complementarietà tra due principi erroneamente considerati come opposti. Su un masso lavico sovrastante la fonte definita d’acqua chiara è incisa un’epigrafe: riteniamo che l’incisione riproduca le frasi pronunciate dal neofita iniziato ai sacri misteri. Ci troviamo, dunque, in un luogo ove era stato tracciato un percorso iniziatico che cominciava dalla fonte di acqua scura simboleggiante la vita profana, per giungere alla fonte di acqua chiara, simboleggiante la vera vita illuminata dalla conoscenza. Il percorso doveva concludersi nell’ara posta sul guado del fiume ove il neofita porgeva agli dèi un sacrificio di ringraziamento.
La tradizione orale, che attribuisce connotati di sacralità a questo luogo, trova conferma nel nome stesso con cui vengono indicate le acque che ivi scorrono, ovvero acque delle Favare. Il nome, infatti, è formato dal prefisso sacro Vè o fe e vara, che significa acqua, con il significato di Acque sacre.
Anche il toponimo Polichello, la contrada ove insiste la valle appena descritta, è riferibile ai Palici. Riporta lo storico Adranita Petronio Russo che i due gemelli venivano anche appellati Delli, termine ormai in disuso nella lingua tedesca, che significa nascosto. Infatti i due gemelli, secondo la versione greca fornita da Eschilo nelle Etnee, erano stati nascosti dalla madre Etna alla collera dell’adirata Era, moglie di Zeus. Siamo propensi a credere che il termine Delli-nascosti venisse utilizzato in chiave metaforica per alludere al fatto che la verità non può essere rivelata a tutti ma solo agli iniziati.
Nei pressi della valle delle Muse, non si sa bene dove, erano issate delle colonne a tronco poligonale nei cui capitelli erano scolpite delle spirali e delle ruote del sole, ovvero delle croci inscritte nel cerchio. Questo simbolismo, collegato a quanto sopra affermato a proposito del rito di iniziazione presso le fonti degli dèi Palici, fa comprendere quanto elaborata fosse la visione metafisica del mondo presso i nostri antenati. È probabile che le colonne sostenessero un’ara in cui si celebrava il rito del solstizio d’inverno, rito importantissimo celebrato in tutto il mondo indoeuropeo, fino ad essere mutuato dallo stesso cristianesimo.
I Sicani,quali eredi diretti dell’Avo, rivendicavano il diritto di abitare la Sicilia, chiamata appunto Sicania. I nostri antenati, attraverso il toponimo Sicania, espressero il primo concetto di consustanzialità con l’Avo divino. Infatti, il pronome riflessivo di terza persona sich (sé), unito al lessema Ano-avo/antenato, rivendica tale derivazione privilegiata dall’antenato divinizzato. In pari tempo la forma triangolare della nostra isola riconduce al simbolismo del divino adottato da sempre in tutte le culture indoeuropee: attraverso la figura geometrica del triangolo la divinità esprime la protezione riservata a quanti ne condividono la dimora. Il nome triangolo è formato dall’unione dei lessemi tri - tre, An-avo o dio, gonner – protezione.
Il nome Trinacria, all’interno del quale il nesso consonantico Kr esprime una prorompente forza generatrice, richiama simbolicamente la triade divina, formata da Padre, Madre e figli.
Noi Siciliani abbiamo il privilegio di essere stati scelti quale veicolo di questa manifestazione tangibile del sacro istituto della famiglia, attraverso la semantica e la geografia sacra che fu patrimonio donato da Dio ai nostri antenati. Conserviamolo caro.
Prof. Francesco Branchina