a cura della dott.sa Francesca Merlo
a. l’esilio a Babilonia e il post-esilio
a. l’esilio a Babilonia e il post-esilio
Nel 587 a.C. l’imperatore babilonese Nabucodonosor entra in Gerusalemme, distrugge il tempio, fa strage e deporta molti ebrei. A Babilonia essi vivono una situazione tristissima (cfr salmo 137): la perdita della libertà, lo smembramento delle famiglie, il duro lavoro nelle campagne. La cultura in cui sono immersi è completamente diversa: devono imparare l’aramaico (la lingua ebraica cesserà per sempre di essere parlata), un diverso il modo di computare il tempo, di vivere, di pensare. Le domande che si fanno, e che vengono loro fatte (cfr salmo 42-41), non hanno risposta immediata né facile: dov’è il tuo Dio? Se ti ha scelto, perché poi ti ha abbandonato?
È in crisi non solo la fede, ma l’identità del popolo.
Sorgono in questo periodo grandi personalità di profeti e sacerdoti; essi interrogano il passato e risalgono fino alle più antiche tradizioni scritte ed orali, per trovare in esse una risposta. Comincia a farsi strada la riflessione che il culto ci può essere anche senza il luogo sacro, come nei tempi antichi; al sacrificio dell’animale offerto nel tempio si può sostituire il sacrificio della propria persona e questo avviene attraverso la circoncisione, il rispetto del sabato, l’ascolto della Parola: tre segni di identità anche per chi è in diaspora. E se materialmente manca il testo della Torah , i sacerdoti ricordano che tutta la storia fin dalla creazione del mondo è “parola di Dio” da “ascoltare” (proprio in questo periodo dalla scuola sacerdotale nasce il racconto della creazione posto all’inizio del libro della Genesi, in cui Dio crea il mondo “dicendo”).
Nel 538 a.C., grazie alla conquista persiana, agli ebrei è concesso di ritornare in patria e di ricostruire il tempio. Il culto ora ha due anime: il
culto templare
, con i sacrifici quotidiani di animali e il culto
sinagogale
, in cui l’ascolto della
Torah
prende il posto del sacrificio cruento.
Il culto sabbatico nella sinagoga porta a un rinnovamento dell’ebraismo, che gli permetterà di sopravvivere anche nella situazione di
diaspora
(dispersione) in cui gli ebrei, d’ora in avanti, sempre più si troveranno a vivere. Viene istituito anche un nuovo importante organismo, il Sinedrio: la corte suprema politico-religiosa che fissa la dottrina e stabilisce la liturgia, ha il potere di votare le leggi e una milizia propria, può condannare a morte (al tempo di Gesù Cristo, però, non può materialmente eseguire la condanna).
Questa ri-organizzazione dell’ebraismo concentrata sul culto, sulla legge e sulla riflessione dottrinale, che ruota sempre più attorno alla sinagoga, prende il nome di
giudaismo
.
Il giudaismo del post esilio è un mondo frammentato, per più motivi. Politicamente Israele è una provincia dell’impero persiano e la nazione, come unità etnica e culturale su un territorio preciso, è smembrata: comunità giudaiche si trovano disseminate in tutto il Medio oriente, fino all’India. Vi sono tre centri di maggiore urbanizzazione ebraica: Babilonia, Gerusalemme, l’Egitto (in cui successivamente il centro sarà la città di Alessandria).
All’interno vi sono numerose correnti: farisei, sadducei, esseni, battisti, zeloti, samaritani ed altre ancora.
La riflessione rabbinica vede nella diaspora un dono: Dio ha aperto i confini della “terra promessa” e in questo modo salva il suo popolo dall’estinzione: d’ora in avanti, anche quando sarà perseguitato e decimato in un luogo, sopravvivrà in un altro luogo.
b. Il giudaismo dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C.
La presa di Gerusalemme del 70 d.C. vede la nuova distruzione del tempio da parte dei romani e lascia una popolazione decimata e stremata. Sadducei, esseni ed altri gruppi sono scomparsi nell’eccidio o sono stati venduti come schiavi, il Sinedrio non esiste più.
A Iavneh (Iamnia in greco Ιαμμια nel 90 d.C. si raduna un gruppo di rabbini farisei. Sono loro a prendere in mano la situazione: costituiscono un nuovo Sinedrio, stabiliscono un calendario liturgico unico, unificano il culto della sinagoga e ne fanno il perno della vita religiosa. Inoltre fissano il canone delle Scritture, e vi annoverano solo i libri scritti in ebraico (39 libri), mentre i giudei di Alessandria ne conoscono anche altri sette, scritti o conosciuti in greco (la Bibbia tradotta dai rabbini nel III-II secolo a.C., detta
dei Settanta
, ne ha 46; questa differenza la ritroviamo ancor oggi tra il canone dei cattolici e quello dei protestanti).
I rabbini di Iamnia devono affrontare anche il problema del rapporto col cristianesimo, che si era diffuso in Palestina, in Asia Minore, in Grecia, in Egitto.
Per diversi anni il cristianesimo era apparso come una setta interna: Pietro e Giovanni andavano a pregare al Tempio, Paolo predicava nelle sinagoghe. I cristiani di origine ebraica si erano sempre ritenuti l’espressione del vero ebraismo, quello che aveva riconosciuto l’atteso
Messia
(in greco
Cristo
); in Gesù essi vedevano il compimento delle profezie antiche, fatte ai loro padri.
Essi adoperavano la Bibbia dei
Settanta
sia perché il greco era ormai la lingua più diffusa e più compresa, sia perché quella traduzione aveva maturato certi vocaboli esplicitandoli in senso messianico e quei brani calzavano perfettamente con la persona di Gesù.
I rabbini di Iamnia espellono gli ebreo-cristiani dalla sinagoga, proibendo loro di partecipare al culto; nelle
diciotto benedizioni
introducono una
maledizione
contro gli “apostati, eretici, insolenti” cioè loro, i cristiani. Tolgono dal culto sinagogale il testo
dei Settanta
e incaricano Aquila, Simmaco e Teodozione di fare altre tre traduzioni greche.
Gli ebreo-cristiani entrano allora a far parte delle chiese cristiane di origine pagana, che negli anni ’90 sono assai più numerose della chiesa-madre. Rimane l’amarezza di essere stati rifiutati dai giudei, nonostante l’appartenenza ebraica.
In questo lavoro di ricostruzione e identificazione compiuto dai rabbini farisei, le tradizioni orali acquistano sempre maggior importanza e gradualmente vengono messe per iscritto fino ad arrivare, nel corso di qualche secolo, alla composizione del Talmud.
c. La perfezione rituale e lo spirito della Legge
Si è visto che la “Legge” per l’ebreo non è l’impersonale esigenza di una collettività ordinata, ma è la
Torah
che viene da Dio, rimanda all’Alleanza e al rapporto con Dio. Nel giudaismo i rabbini la caricano ancor più di significato e vedono in essa la stessa Presenza, da coltivare e custodire con rispetto assoluto.
L’ebraismo aveva sempre “ascoltato”la presenza di Yhwh nella storia, aveva fatto esperienza di Lui in un rapporto liberante, dinamico, mai dato una volta per tutte ma sempre da cercare nel proprio vissuto; nel giudaismo, invece, il bisogno di non perdere la propria identità in rapporto agli altri popoli porta a fissare e codificare.
L’ebraismo inoltre, a differenza delle altre religioni, aveva colto la santità di Dio non tanto come separazione dall’uomo ma come pienezza di vita che trabocca e traboccando si comunica; nel giudaismo invece c’è un ritorno al sacro come mondo di Dio, separato dal profano. Il culto prende il primato sulla vita.
È dopo l’esilio babilonese del VI secolo a.C. che l’ebraismo compie la svolta, irrigidendo e moltiplicando i precetti di comportamento e le norme della perfezione rituale. Il giudaismo, mentre da una parte assolve al compito di mantenere compatto un popolo disperso attraverso il recupero puntiglioso delle proprie radici, dall’altra cade nel pericolo del legalismo, che svuota il vero significato della
Torah
, il suo essere “per l'uomo”.
L’osservanza scrupolosa di numerosissimi precetti può nascondere la volontà di garantirsi e quasi comprare le
benedizioni
divine, dimenticando che Dio è sempre al di là di ogni schema e che la sua benevolenza è sempre un dono, mai un diritto. Fondamentalmente è questo il rimprovero che il rabbino Gesù di Nazaret fa ad alcuni farisei del suo tempo (cfr. per esempio vangelo di Marco 2,27 e 7,1-13).
Lungo tutta la storia biblica i profeti hanno richiamato costantemente, fortemente, la richiesta di Dio di attuare la giustizia e la misericordia nei confronti del prossimo, senza cui l’osservanza degli obblighi cultuali diventa un’inutile maschera, non più gradita a Dio.
Solo due citazioni:
Al fondo della sensibilità giudaica c’è però il senso della assoluta santità di Dio: Dio è santo ed è per questo che chiede al suo partner umano la santità. La perfezione rituale del giudaismo richiede molta attenzione, quindi è segno di rispetto e di amore nei confronti di Dio; la costante attenzione ai precetti è segno di una vita che, in ogni suo particolare, è sotto lo sguardo di Dio. E all’osservante della Legge è sempre richiesta l’adesione interiore, oltre all’osservanza formale.
Una chiave di comprensione del giudaismo può trovarsi in una frase della
Mishnah
(prima raccolta delle tradizioni orali che stanno alla base del
Talmud
) dove si raccomanda:
“fate una siepe intorno alla Torah” (Mishnah, Avot 1,1).
La preoccupazione che gli insegnamenti di Dio non vengano disattesi, fa sì che si eriga intorno ad essi una serie di precetti, una “siepe” che salvaguarda dalla possibilità di trasgredire anche inavvertitamente la volontà divina.
L’esempio più noto riguarda un precetto alimentare (Es 23, 19):
Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre
. Il significato originario probabilmente è di non uccidere un capretto quando ancora allatta. Nel giudaismo il precetto viene preso alla lettera e allora, in una civiltà non più contadina, in cui non sappiamo di quale capra sia figlio un determinato capretto acquistato in macelleria, è previsto che in cucina non si mescoli mai nessun ingrediente che viene dalla carne con nessun ingrediente che viene dal latte.