Paragrafi dell'opera

Testo

Luciano di Samosata -

DIALOGHI DEGLI DEI.

1.

Prometeo e Zeus.

Prometeo. Scioglimi, o Zeus, che già ho patito assai.

Zeus. Scioglierti? Tu avresti meritato catene più pesanti, e tutto il Caucaso sovra il capo, e sedici avvoltoi non pure a roderti il fegato ma a scavarti gli occhi, perché ci formasti quei begli animali che son gli uomini, e rubasti il fuoco, e facesti le donne. E dell’inganno fatto a me nello spartir delle carni, mettendomi innanzi alcune ossa coverte di grasso, e serbando il migliore boccone per te, che debbo dire?

Prometeo. E non basta ancora la pena che ho sofferta, da tanto tempo inchiodato sul Caucaso, nutrire del mio fegato la crudele aquila divoratrice?

Zeus. Cotesto è niente verso di quello che tu devi patire.

Prometeo. Se mi scioglierai, io ti darò una ricompensa, o Zeus; ti avviserò di cosa molto importante.

Zeus. M’inganni tu, o Prometeo?

Prometeo. Ed a che pro? Tu ora conosci dove è il Caucaso, e non hai bisogno di catene se trovi che t’ho ordita qualche astuzia.

Zeus. Dimmi prima la cosa importante che mi sarà di ricompensa.

Prometeo. Se ti dico dove vai ora, mi darai fede nelle altre cose ch’io ti profeterò?

Zeus. E perché no?

Prometeo. Vai da Teti, per giacerti con lei.

Zeus. Sì, l’hai detto. Ma che sarà dipoi? perché parmi che tu dica qualcosa di vero.

Prometeo. Non mescolarti affatto con la Nereide, o Zeus. Che se ella concepirà di te, il figliuolo che nascerà farà a te quel tu facesti a Saturno.

Zeus. Vuoi dire, che mi torrà la signoria?

Prometeo. Non sia mai; o Zeus. Ma se ti mescoli con lei, questo pericolo ti minaccia.

Zeus. Dunque Teti si stia pe’ fatti suoi. Per questo che mi hai detto, Efesto ti sciolga.

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2.

Eros e Zeus.

Eros. Se ho errato in qualche cosa, o Zeus, perdonami, che i’ sono ancora un fanciullo e senza giudizio.

Zeus. Tu fanciullo, o Eros, che sei più antico assai di Giapeto? Forse perché non hai barba e capelli bianchi, però vuoi passare per bimbo, vecchio e malizioso che sei?

Eros. E che grande offesa t’ha fatto questo vecchio, come tu di’, che vuoi incatenarmi? Zeus. Vedi, o furfante, se è piccola offesa: ti fai giuoco di me, non c’è cosa che non mi hai fatto divenire, satiro, toro, cigno, oro, aquila: di me non hai fatto innamorar mai alcuna, non mi sono mai accorto di piacere a nessuna donna: ma mi è forza usare astuzie con esse, e nascondermi: ed esse amano il toro o il cigno, ma se vedesser me, morrebbono di paura.

Eros. Con ragione: ché elle sono mortali, e non sostengono la tua vista.

Zeus. E come va che Apollo è amato da Branco e da Jacinto ?

Eros. Ma Dafne lo fuggiva, quantunque bel giovane, con bella chioma, e sbarbatello. Se vuoi essere amato non scuoter l’egida, non portare la folgore, acconciati il viso più dolce che puoi, fa di parer delicato e leggiadro; spartiti in su la fronte i ricciuti capelli, e su ponvi la mitra, vestiti di porpora, mettiti scarpette ricamate d’oro, componi i passi a suono di flauto e di timpani, e vedrai che verranno dietro a te più donne, che non Menadi a Dioniso.

Zeus. Bah! non vorrei far questo per essere amato.

Eros. Dunque, o Zeus, lascia d’amare: questo è più facile.

Zeus. No; voglio amare, ma senza tante brighe. A questo patto ti lascio un’altra volta.

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3.

Zeus e Ermes.

Zeus. La bella figliuola d’Inaco, la conosci, o Ermes?

Ermes. Sì: vuoi dire Io.

Zeus. Ella non è più fanciulla, ma giovenca.

Ermes. Oh peccato! E come fu trasmutata?

Zeus. Per gelosia Era la trasmutò. Ed un altro gran male ha macchinato contro quella misera: le ha dato a custode un boaro che ha molti occhi, ed è detto Argo; il quale fa pascer la giovenca, ed ei non dorme mai.

Ermes. Che dunque si dee fare?

Zeus. Vola giù nella selva Nemea dove è Argo bifolco, ed uccidilo: mena Io per mare in Egitto, e falla Iside: e d’indi innanzi ella sia Dea a quelle genti, e faccia crescere il Nilo, e mandi i venti, e salvi i naviganti.

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4.

Zeus e Ganimede.

Zeus. Su via, o Ganimede, giacché siamo arrivati qui, dammi ora un bacio: vedi che io non ho più il rostro ricurvo, né gli unghioni, né le ali, né sono uccello come ti parevo.

Ganimede. O uomo, non eri tu aquila testé, che volando mi ciuffasti in mezzo al gregge? Come ti sono scomparite quelle ali, e sei divenuto un altro?

Zeus. I’ non sono né uomo, né aquila, o fanciullo; ma il re di tutti gli Dei, che per poco tempo mi son trasformato.

Ganimede. Che dici? se’ tu Pane? E come non hai la zampogna, né le corna, né le cosce pelose?

Zeus. Solo quel dio tu conosci?

Ganimede. Sì: e noi gli sacrifichiamo un caprone che ha le più grosse coglie, e proprio innanzi alla spelonca dove egli abita. Tu mi pari che sei un ruba-fanciulli.

Zeus. Dimmi: e di Zeus non udisti mai il nome, non vedesti mai l’ara sul Gargaro? di colui che piove, che tuona, che fa i lampi?

Ganimede. Tu se’ colui che testè fece cader tanta grandi¬ne, che abiti in su io cielo, come dicono, che fai quei rumori, ed a cui il babbo sacrificò un ariete! E che male t’ho fatto io, o re degli Dei, che mi hai rapito? Ah! forse i lupi mi sbraneranno le pecore, che sono tutte sbrancate.

Zeus. E pensi ancora alle pecore, or che sei immortale, e starai sempre qui con noi?

Ganimede. Che dici mai? E non mi poserai sull’Ida oggi stesso?

Zeus. No: ché invano mi sarei tramutato di dio io aquila.

Ganimede. Oh, il babbo mi andrà cercando, e si sdegnerà non trovandomi: ed infine io sarò battuto per avere abbandonata la greggia.

Zeus. E dove ti vedrà egli?

Ganimede. No, no: i’ voglio babbo mio. Se mi lasci andare, io ti prometto che ei ti sacrificherà un altro ariete per mio riscatto. N’abbiamo uno di tre anni, così grande, che guida esso la greggia.

Zeus. Che fanciullo semplice ed innocente! e parmi ancora troppo fanciullo! Ma, o Ganimede, lascia stare tutte codeste cose, e scordati della greggia e dell’Ida. Tu che già sei uno de’ celesti, farai gran bene di qui ed al tuo babbo ed alla patria tua: ed invece del cacio e del latte, gusterai l’ambrosia, e berrai il nettare, e verserai bere a noi altri. E la più bella cosa è che tu non sarai più uomo, ma immortale: ed io farò risplendere bellissima la tua stella; e infine tu sarai beato.

Ganimede. E se vorrò giocare, chi giocherà con me? Sull’Ida eravam tanti compagni.

Zeus. Anche qui avrai un compagno, che, vedilo, è Eros, e giocherete insieme a dadi. Però fà cuore, stà lieto, e non pensare alle cose di laggiù.

Ganimede. E che mi farete fare? avete bisogno d’un pastore anche qui?

Zeus. No; tu mi mescerai, avrai cura del nettare, e d’apparecchiare il convito.

Ganimede. Questo non m’è difficile; ché io so come si versa il latte, e come si serve nella tazza d’ellera.

Zeus. E rieccolo al latte: egli crede di servire agli uomini. Qui è il cielo, e t’ho detto che noi beviamo il nettare.

Ganimede. Ed è più dolce del latte, o Zeus?

Zeus. Lo saprai or ora; e quando l’avrai gustato, non desidererai più il latte.

Ganimede. E dove dormirò la notte? forse col mio compagno Eros?

Zeus. No; i’ per questo t’ho rapito, per farti dormire con me.

Ganimede. Ah, non potresti star solo, e però hai piacere di dormire con me.

Zeus. Si: e poi tu se’ si vago, o Ganimede, se’ sì bello!

Ganimede. E che ti fa la bellezza pel sonno?

Zeus. Gli dà maggior dolcezza, lo fa venir più soave.

Ganimede. Eppure il babbo si dispiaceva quand’io mi corcavo con lui ; e la mattina contava che io lo svegliavo rivoltandomi, dando calci, e parlando nel sonno: onde spesso mi mandava a dormir con la. mamma. Or vedi, se tu dici di avermi rapito per questo, di ripormi in terra: se no, tu starai svegliato, ché io ti molesterò continuamente rivoltandomi.

Zeus. Questo sarà il più gran piacere che mi darai, se io veglierò con te baciandoti spesso ed abbracciando.

Ganimede. Te lo vedrai tu: io dormirò, io, e tu bacerai.

Zeus. Vedremo allora il da fare. Ora, o Ermes, menalo teco, e fattagli bere l’immortalità, riconducilo a noi coppiere, che abbia prima imparato come si deve porger la tazza.

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5.

Era e Zeus.

Era. Dacché, o Zeus, menasti qui quel garzonetto frigio che rapisti dall’Ida, non ti dai più pensiero di me.

Zeus. E già t’ingelosisci, o Era, anche di lui si semplice ed innocentissimo? lo ti credevo acerba alle sole donne che s’impacciano con me.

Era. Sta male e sconviene a te, che sei signore di tutti gli Dei, lasciar me tua legittima moglie, e discendere su la terra a trescar con le donne, divenendo ed oro, e satiro, e toro. Almeno quelle tue pratiche rimangono in terra: ma. questo fanciullo Ideo l’hai rapito, o fortissimo degli Dei, ce l’hai messo in casa, e proprio in capo a me sotto nome di coppiere. Forse ci mancavan coppieri, ed Ebe e Efesto sono già vecchi ed inutili? Tu non prendi la coppa da lui, se pria non lo baci al cospetto di tutti; e quel bacio ti sa più dolce del nettare; però spesso non hai sete, e chiedi bere; e talvolta appena assaggi, e gli ridai la tazza, e mentre egli beve, gliela ritogli, e bevi il rimanente dove il fanciullo ha attaccate le labbra, sicché tu e bevi e baci. Ieri tu, re e padre di tutte le cose, deposta l’egida ed il fulmine, sedevi a giocare a dadi con lui, ed hai tanto di barba. Tutto questo io lo vedo, e non credere che non capisca.

Zeus. Che male è, o Era, baciare un fanciul si leggiadro mentre si beve; e godere insieme e del bacio e del nèttare? Se gli permettessi di baciare una volta anche te, non mi riprenderesti più che io stimo il bacio più soave del nettare.

Era. Tu parli come un fanciullaio.1 Non sarei io sì pazza da accostar le labbra a cotesto zanzero di Frigia, cosi molle e infemminito.

Zeus. Non parlar male dei fanciulli, ché questo infemminito, questo barbaro, questo zanzero, mi è più caro e desiderato.... ma via, non voglio dirtelo per non farti andare più in collera.

Era. Di’ pure che te lo godi per far?... Ma ricordati quanti insulti mi fai per cotesto coppiere.

Zeus. Oh lui no, ma dovevam farci mescere da Efesto tuo figliuolo, zoppo, uscito della fucina, tutto bruciato di scintille, e che allora lascia le tanaglie? da quelle mani prendere la tazza e abbracciare intanto e baciare lui, che neppur tu, sua madre, avresti cuore di baciargli quella faccia lorda di fuliggine? Quegli era più leggiadro, non è vero? Quel coppiere conveniva assai meglio al convito degli Dei: bisogna rimandar tosto sull’Ida Ganimede, che è sì pulitino, si grazioso nel presentar la tazza con quelle manine di rosa, e, quel che più ti duole, che dà baci più savorosi del nettare.

Era. Ora è zoppo Efesto, e non ha mani degne da porgerti la tazza, ed è pieno di fuliggine, e l’hai a schifo vedendolo, da quando l’Ida ci ha allevato questo bel zazzerino. Prima non le vedevi queste cose: né le scintille, né la fucina ti facevan rivolger la faccia quand’egli ti porgeva bere.

Zeus. O Era, tu affanni te stessa con codesta gelosia, e niente più; e cresci l’amor mio. Se ti spiace un bel fanciullo per coppiere, abbiti il figliuol tuo. Tu, o Ganimede, a me solo porgerai la tazza, ed ogni volta mi darai due baci, uno quando me la presenterai piena, ed un altro quando la riprenderai. Che è questo? tu piangi? Non temere: chi ti vorrà punto di male, guai a lui.

1 Fanciullaio. Avrei potuto dir pederasta, e serbare la stessa parola del testo: ma ho voluto usare, anzi coniar questa, che parmi più conforme all’indole della lingua italiana, nella quale abbiamo altre parole simili. A chi non piace questa parola nuova, vi metta la vecchia greca, o altra, se la sa, migliore.

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6.

Era e Zeus.

Era. Quest’Issione, o Zeus, per che uomo lo tieni?

Zeus. Dabbene, o Era, e convivante nostro. Non saria con noi, se fosse indegno del nostro banchetto.

Era. N’è indegno, perché è un insolente, e non ci dev’essere più.

Zeus. Che insolenza ha fatto? Parmi ch’io debbo saperla.

Era. Che altro che.... ma mi vergogno di dirlo; ha avuto un ardire troppo grande.

Zeus. Ma così tu dici cosa molto più brutta che forse egli non ha tentato. Ha fatto vergogna a qualcuna? Capisco, questa sarà la turpitudine, che tu non vuoi dire.

Era. A me l’ha fatta, o Zeus, a me proprio: e da un pezzo. Da prima io non capivo perché egli mi guardava fisso, e sospirava, e imbambolava gli occhi, e se io beveva e rendeva la tazza a Ganimede, ei cercava bere in quella, e prendendola in mano la baciava, se la recava agli occhi, e mi guatava. Capivo poi che questi eran segni d’amore: e per molto tempo per pudore non lo dissi a te, e credevo che colui si torrebbe di quella pazzia. Ma ora che ha ardito di richiedermi d’amore, io l’ho lasciato che piangeva e mi stava gettato ai piedi, e turatemi le orecchie per non udire il suo disonesto pregare, son venuta a dirtelo. Vedi tu come punire costui.

Zeus. Bravo il malvagio! a me proprio? Sino a mia moglie Era? Cotanto ti ha inebbriato il nettare? Ne siam cagione noi, che fuor di misura amiamo gli uomini, e li abbiamo fatti commensali nostri. Ma pure ei sono perdonabili se bevendo quel che beviamo noi, e vedendo le bellezze celesti, che non mai videro su la terra, desiderano di goderle, e ne son presi d’amore. Eros è forza grande, e signoreggia non pure gli uomini, ma talvolta anche noi altri.

Era. Signoreggia te, che ti fai guidare, menare, tirare pel naso, e lo segui dove egli vuole, e ti muti facilmente in ogni cosa secondo ei comanda, e sei una girandola, un trastullo in mano d’Eros. Ed ora intendo perché vuoi perdonare ad Issione; una volta té ne godesti la moglie, la quale ti partorì Piritoo.

Zeus. E ancora ricordi di qualche follia che ho fatto quando son disceso su la terra? Ma sai quel che penso per Issione? Non punirlo affatto né discacciarlo dal convito, che saria una rozzezza. Ma giacché egli è cotto d’amore, e, come tu di’, piange, ed ha gran passione....

Era. Che, o Zeus? Vuoi insidiarmi anche tu?

Zeus. Niente affatto: ma faremo di una nube un’immagine simile a te, e poiché sarà finita la cena, ed egli come innamorato non potrà dormire, noi gliela porteremo a letto: e così gli cesserà la smania, credendo soddisfatto il suo desiderio.

Era. Ah no: che muoia il temerario.

Zeus. Permettilo, o Era. Che male puoi aver tu da una finzione, se Issione starà con una nube?

Era. Ma la nube parrà che sono io, e la vergogna verrà su di me per la somiglianza.

Zeus. Non dir questo: ché la nube non sarà mai Era, né tu la nube; solo Issione sarà ingannato.

Era. Ma poi, come soglion fare tutti gli sciocchi, ei forse se ne vanterà, lo conterà a tutti, dirà che si è giaciuto con Era, e divide il letto con Zeus. Forse dirà ancora che io sono spasimata di lui, e la gente lo crederà, non sapendo che egli ha abbracciata una nube.

Zeus. Dunque se ei ne dirà parola, io lo sprofonderò nell’inferno, dove legato ad una ruota, girerà con essa sempre, ed avrà pena senza posa; così pagherà il fio non dell’amore, che non è male, ma della sua iattanza.

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7.

Apollo e Efesto.

Efesto. Hai veduto, o Apollo, il figliuolino di Maia, testé nato, come è bello, e sorride a tutti, e già mostra voler divenire un gran pezzo di bontà?

Apollo. Quel fanciullino, o Efesto? Quel tuo gran pezzo di bontà è più vecchio di malizia, che non d’anni Giapeto.

Efesto. Ed a chi ha potuto far male, se è nato ieri?

Apollo. Dimandane Poseidone, al quale rubò il tridente; o Ares, a cui sottrasse la spada cavandogliela dal fodero; non ti parlo di me, che mi disarmò dell’arco e delle frecce.

Efesto. Quel bimbo ha fatto questo, se appena si regge, e sta nelle fasce?

Apollo. Lo saprai, o Efesto, se pur ti viene vicino.

Efesto. Mi è venuto attorno.

Apollo. Ed hai tutti gli strumenti? Non ne hai perduto nessuno?

Efesto. L’ho tutti, o Apollo.

Apollo. Guardali meglio.

Efesto. Per Zeus! Le tenaglie non vedo.

Apollo. Le troverai nelle fasce del fanciullo.

Efesto. È così leggiero di mano, che ha imparato a rubare in corpo alla mamma!

Apollo. Non l’hai udito a parlare, e come ha lo scilinguagnolo spedito. Ei vuole anche render servigi a tutti. Ieri avendo sfidato Eros alla lotta, tosto lo vinse, facendogli, non so come, mancare i piedi: e mentre Afrodite lo lodava della vittoria e l’abbracciava, le rubò il cinto; e lo scettro a Zeus, che ancor se ne ride: gli avrebbe preso anche il fulmine se non fosse grave troppo e con molto fuoco.

Efesto. Questi è un nuovo miracolo di fanciullo.

Apollo. Ed aggiungi che è già anche musico.

Efesto. E che prova n’hai ?

Apollo. Trovata a caso una testuggine morta, ei ne compose uno strumento. Vi adattò i manichi e li congiunse, poi vi fece i bischeri, vi pose il ponticello, e su di esso distese le corde, e sonava con tanta dolcezza, o Efesto, e con tanta maestria, che faceva invidia anche a me, che son vecchio ceteratore. Diceva Maia che neppur la notte ei rimane in cielo, non sa trovar posa, scende sin nell’inferno certamente a rubacchiarvi qualche cosa. Ha l’ali ai piedi, ed in mano una verga di gran virtù, con la quale conduce e guida all’orco le anime dei morti.

Efesto. Gliela diedi io come un balocco.

Apollo. Ed ei te ne ha ricompensato con le tenaglie.

Efesto. Appunto me ne ricordi: vo a riprenderle, se, come tu di’, gliele troverò nelle fasce.

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8.

Efesto e Zeus.

Efesto. Che debbo fare, o Zeus? Eccomi al tuo coman¬do, e con la scure arrotata, che ad un colpo taglieria netto un sasso.

Zeus. Bene, o Efesto: spaccami il capo in due.

Efesto. Vuoi farmi fare una pazzia? Dimmi da senno che vuoi da me.

Zeus. Questo appunto, che tu mi apra il cranio: e se non ubbidisci mi vedrai un’altra volta sdegnato. Devi dare di tutta forza, e fà presto, ché io mi sento le trafitture del parto che mi straziano il cervello.

Efesto. Bada, o Zeus, che non facciam qualche guasto; la scure è tagliente, e farà sangue: non ho le mani di Lucina io.

Zeus. Da senza paura, o Efesto: so io quel che conviene.

Efesto. Mi dispiace, ma darò: che posso altro, quando tu il comandi?... Ma che è? una fanciulla armata? Gran male, o Zeus, avevi nel capo: a ragione eri così sdegnoso, ti stava viva sotto la meninge una tanta vergine, e tutta armata. Avevi un padiglione per capo, e nol sapevi. Ma ella balla la danza pirrica, agita lo scudo, palleggia l’asta, ed è compresa da divino furore, e quel che è più, la è molto bella, ed in breve s’è fatta adulta; ha gli occhi azzurri, che le stan bene sotto quell’elmo. O Zeus, io t’ho aiutato a partorirla, in compenso dammela in sposa.

Zeus. Chiedi cosa impossibile, o Efesto: ella vuol rima¬ner sempre vergine, lo per me non ti dico di no.

Efesto. Questo volevo: al resto penserò io: me la rapirò.

Zeus. Se puoi, fà pure: ma ti so dire che brami cosa impossibile.

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9.

Poseidone e Ermes.

Poseidone. Si può parlar con Zeus, o Ermes?

Ermes. No, o Poseidone.

Poseidone. Ma portagli l’ambasciata.

Ermes. Non essere importuno, ti dico: non è tempo, ora non potresti vederlo.

Poseidone. Forse è con Era?

Ermes. No: tutt’altro.

Poseidone. Capisco: Ganimede è dentro.

Ermes. Neppure: sta indisposto un po’.

Poseidone. E come, o Ermes? Oh, questo mi dispiace!

Ermes. Mi vergogno a dirlo: ecco.

Poseidone. Ma non devi vergognarti con me, che ti son zio.

Ermes. Vuoi saperlo? Ora ha partorito.

Poseidone. Partorito egli? e chi l’ha ingravidato? Dunque era maschio-femmina, e noi nol sapevamo? Ma il ventre non gli pareva cresciuto affatto.

Ermes. Ben dici; ché ei non aveva nel ventre il feto.

Poseidone. Intendo: ha partorito dalla testa un’altra volta, come partorì Pallade: egli ha la testa che partorisce.

Ermes. No, in una coscia ei fu gravido d’un fanciullo avuto da Semele.

Poseidone. Benissimo: costui ingravida tutto, in tutte le parti del corpo. Ma chi è Semele?

Ermes. Una Tebana, una delle figliuole di Cadmo: ei v’ebbe che fare, e la ingravidò.

Poseidone. E poi ha partorito egli, invece di lei?

Ermes. Appunto: e so che ti parrà nuova. Era (sai quanto è gelosa) andò da Semele, e con suoi inganni la persuase a chieder da Zeus che l’andasse a trovare coi tuoni e coi lampi. La semplice così fece, Zeus v’andò anche col fulmine, il quale bruciò la soffitta della casa, e Semele perì nel fuoco. Egli mi comandò di sparare il ventre della donna, e di portargli il feto ancora imperfetto di sette mesi; e poi ch’io ebbi ciò fatto, egli si apri una coscia, e ve lo chiuse per farlo giungere al punto; ed ora entrato nel terzo mese l’ha partorito, ed è sfinito dai dolori.

Poseidone. Ed ora dov’è il fanciullo?

Ermes. L’ho portato in Nisa, e l’ho dato ad allevare. alle Ninfe, e si chiama Dioniso.

Poseidone. Dunque mio fratello è padre e madre di questo Dioniso?

Ermes. Così pare. Ma lasciami andare a portargli l’acqua per la ferita, e a far le altre faccende d’uso, che egli è nel puerperio.

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10.

Ermes ed Elios.

Ermes. O Elios, Zeus dice, non uscirai né oggi, né dimani, né diman l’altro, ma ti rimarrai dentro, e intanto sia una sola notte lunga: onde le Ore sciolgano i cavalli, tu spegni il fuoco, e riposati un pezzo.

Elios. Tu mi porti nuova e strana ambasciata, o Ermes. Non mi pare d’aver deviato dal corso, né guidato il carro oltre i limiti: perché sdegnasi egli meco, e vuol fare una notte triplice del giorno?

Ermes. Niente di questo, né sarà sempre così. Egli ha ora bisogno che ci sia una notte più che lunghissima.

Elios. Dove è? e donde ti mandò a me con questa ambasciata?

Ermes. È in Beozia, o Elios, e stassene con la moglie di Anfitrione, della quale è innamorato fradicio.

Elios. E non gli basta una notte?

Ermes. Altro! Da quel congiungimento dovrà nascere un grande e divino miracolo d’atleta; impastarlo in una notte sola o impossibile.

Elios. L’impasti col buon pro. Ma queste cose, o Ermes, non accadevano quando c’era Saturno (siam fra noi, e possiamo parlare); quegli non lasciava mai Rea sola nel letto, né abbandonava il cielo per andare a dormire in Tebe: il giorno era giorno, e la notte misuratamente proporzionata alle stagioni: non ci eran novità e mutazioni: né mai egli fece comunella con donne mortali. Ora per una misera femminella ei deve stravolgere il mondo: i cavalli divenirmi ritrosi per ozio, la strada guastarsi per non essere battuta tre dì, ed i poveri uomini vivere nelle tenebre. Ecco frutto che godranno degli amori di Zeus, star corcati ad aspettare ch’egli compia l’atleta che tu dici, ricoperti di sì lungo buio.

Ermes. Zitto, o Elios, che non ti colga male per la lingua. Io vommene dalla Selene e dal Sonno, a dire quello che Zeus m’ha commesso; alla Selene che non s’affretti di troppo; e al Sonno che non lasci gli uomini, affinché non s’accorgano d’una notte si lunga.

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11

Afrodite e Selene.

Afrodite. Che si va bucinando di te, o Selene? che quando sei su la Caria fermi il cocchio per riguardare Endimione, il quale, come cacciatore, dorme allo scoperto; e che talvolta discendi a lui lasciando a mezzo il corso?

Selene. Dimandane il figliuol tuo, o Afrodite; ei m’è cagione di tutto questo.

Afrodite. Oh che tristo! Anche a me che gli son madre quante ne fa egli! Ora mi fa scender sull’Ida per Anchise troiano; ora sul Libano presso quel garzonetto Assiro, del quale ha fatto innamorare anche Proserpina, e m’ha tolto metà di quell’amor mio. Più volte l’ho minacciato di spezzargli l’arco e la faretra, e di spennacchiargli l’ale: e già gli diedi una sculacciata col sandalo: ei piange, dice che nol farà più, ma non guari dopo si scorda di tutto. Ma dimmi, è bello Endimione? ché così il male ha un pò di dolce.

Selene. A me pare tutto bellissimo, o Afrodite, massime quando, distesa la clamide su la rupe, vi si pon sopra a giacere, avendo la mano sinistra ai dardi che gli cadono tra le dita; e la destra che in su ripiegata intorno il capo inquadra la bella faccia: e così dormendo respira un alito soave d’ambrosia. Allora io tacitamente m’avvicino, camminando su le punte dei piedi per non fare strepito e svegliarlo.... tu intendi: che debbo dirti di più? Ah, to mi sento morir d’amore.

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12.

Afrodite ed Eros.

Afrodite. O figliuol mio Eros, poni mente a quel che fai. Non dico su la terra, quante pazzie persuadi agli uomini di fare contro sé stessi e contro gli altri, ma qui in cielo. Ci mostri Zeus sotto varie forme, e lo trasmuti in quel che ti pare;
fai discender la Selene dal cielo; e talvolta costringi il Elios ad indugiarsi presso a Climene scordando il cocchio e i cavalli. A me poi ne fai sicuramente quante ne vuoi, ché io ti son madre. Ma, o temerario, anche a Rea che è sì vecchia e madre di tanti Dei, hai messo il chiodo d’un garzone frigio. Eccola ammattita per cagion tua, ha aggiogati due leoni, e facendosi seguire dai Coribanti, che son furiosi anch’essi, va su e giù scorrendo per l’Ida: ella chiama Ati a gran voci; ed i Coribanti, chi con la spada si ferisce un braccio, chi scapigliato va furiando pe’ monti, chi suona col corno, chi fa rimbombare il timpano, chi strepita coi cembali; sicché tutto l’Ida è pieno di rumori e di furori. Io temo, misera a me che ti ho partorito così gran malvagio, io temo tutto, e specialmente questo, che Rea o tornando in sé, o più impazzando, non ti faccia prendere dai Coribanti, e sbranare o gettare ai leoni. Temo, perché ti vedo in questo pericolo.

Eros. Non temere, o mamma: i leoni con me sono mansueti, spesso mi portano sul dorso, io li afferro per la giubba, e li meno dove voglio; essi dimenan la coda, si fan mettere la mano in bocca, me la leccano, ed io me la ritraggo senza ofesa. Rea poi quando avria tempo di brigarsi di me, se ella pensa solo ad Ati? Ma infine che male fo io, che vi dimostro quale è il bello? Voi correte ad esso: dunque non incolpate me. Vuoi tu, o madre, non amare più? né tu Ares, né egli te?

Afrodite. Come sei tristo! come sforzi tutti! Ma ricordati talvolta de’ miei consigli.

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13.

Zeus, Eracle, ed Asclepio.

Zeus. Finite, o Asclepio, o Eracle, di bisticciarvi tra voi, come fanno gli uomini. Questa è una indecenza, e sconviene al banchetto degli Dei.

Eracle. E vuoi, o Zeus, che questo spezial meschinello abbia un posto più onorato del mio?

Asclepio. Certamente, che io sono da più di te.

Eracle. Ed in che? Forse perché Zeus ti fulminò per le tue ribalderie, ed ora per pietà t’ha rifatto immortale!

Asclepio. A me rimproveri il fuoco? e dimenticasti, o Eracle, che di te fu fatto un falò sull’Oeta?

Eracle. Dunque tra la vita tua e la mia non v’è differenza. Io figliuol di Zeus, io tante fatiche, io tanti benefizi agli uomini, combattere e domar fiere, punire scellerati, io; e tu? Tu sei un cavaradici, un cerretano, forse buono a mettere empiastri agli ammalati, ma non hai fatto mai cosa da uomo.

Asclepio. Dici bene, che io ti sanai le scottature, quando testé mi venisti innanzi mezzo arrostito, che ti si erano attaccate addosso e la tunica ed il fuoco. Io almeno non fui servo, come te, non filai lana in Lidia, vestito di porpora e battuto da Onfale col sandalo ricamato d’oro; io non mai venni in tanto furore da uccidere figliuoli e moglie.

Eracle. Se non cessi d’insultarmi, tosto t’accorgerai che non ti gioverà molto l’essere immortale; che t’afferro e ti sbatacchio col capo giù dal cielo, e te lo sfracello, che non te lo potrà sanare Peone.

Zeus. Finitela, dico, e non turbate la conversazione, o ve ne scaccerò tuttadue. Contentati, o Eracle, che Asclepio segga più sopra di te, perché è morto prima.

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14.

Ermes ed Apollo.

Ermes. Perché sei mesto, o Apollo?

Apollo. O Ermes, io sono sventurato in amore.

Ermes. Giusta cagione di dolore è codesta. Ma che sventura? o t’affanni ancora per Dafne?

Apollo. Ah no; piango l’amato Lacone, figliuolo di Ebalo:

Ermes. Di’, è morto Giacinto?

Apollo. Purtroppo.

Ermes. E chi l’ha morto, o Apollo? chi è stato si crudele da uccidere quel vago fanciullo?

Apollo. Io stesso.

Ermes. Tu? ma che, deliravi, o Apollo?

Apollo. Fu involontaria sventura.

Ermes. E come? vo’ udire come fu questo caso.

Apollo. Egli imparava a trarre il disco, ed io era con lui. Quello scellerato vento Zefiro da molto tempo l’amava anch’esso, ed essendone sprezzato, se ne stava pieno di mala voglia. Io, lanciai al solito, il disco in alto; e quegli soffiando dal Taigete, lo portò a cadere sul capo al fanciullo, che al colpo versò gran sangue, e subito si morì. l’ mi scagliai contro Zefiro saettandolo ed inseguendolo che fuggiva, sino al monte: al fanciullo rizzammo un tumulo in Amicla, dove il disco lo colse; e del suo sangue, feci nascere dalla terra un fiore, il più soave, o Ermes, il più bello di tutti i fiori, che porta scritto il suo nome e la sua sventura. Or ti pare giusto il dolor mio?

Ermes. Sì, o Apollo: ma tu sapevi che quell’amor tuo era mortale; onde non accorarti s’egli ora è morto.

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15.

Ermes ed Apollo.

Apollo. Or vedi, uno sciancato, un fabbro sposarne due bellissime, Afrodite e Carite! vedi fortuna, o Ermes. La meraviglia è come esse patiscono a stargli vicino, massime quando lo vedono curvo sulla fucina, grondante sudore, e con la faccia tutta affumicata. Tutto che egli è così conciato, e l’abbracciano e lo baciano e ci dormono.

Ermes. Questo fa dispetto anche a me, ed ho grande invidia a Efesto. Coltiva la bella chioma, o Apollo, suona la cetra, poni ogni cura in farti bello; ed io posso pure affaticarmi in destrezza e in sonar la lira: quando andiamo a letto, dormiamo soli.

Apollo. Io poi son disgraziato in amore: amai due veramente, Dafne e Giacinto: Dafne m’ebbe tanto in ira che volle diventar legno, anzi che mia: Giacinto lo uccisi col disco: degli amori miei non ho che una corona.

Ermes. Io con Venere una volta.... ma non bisogna parlarne.

Apollo. Mi ricordo, e dicono che ti partorì Ermafrodito. Ma dimmi, se lo sai, come non han gelosia Afrodite di Carite, e Carite di Afrodite?

Ermes. Perché, o Apollo, egli in Lemno sta con Carite, ed in cielo con Afrodite. Ma costei si tiene Ares, che è il cuor suo, e si cura poco del fabbro.

Apollo. Ed Efesto sa di questa tresca?

Ermes. Sa; ma che può contro uno giovane robusto e soldato? Caglia, e fa lo scemo: ma minaccia di fabbricar certa sua rete da pescarli e prenderli sul letto.

Apollo. Non so, ma vorrei esser io preso con lei.

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16.

Era e Latona.

Era. Bei figliuoli, o Latona, hai partoriti a Zeus.

Latona. Non tutte, o Era, possiamo farli sì belli, come è Efesto.

Era. Egli è zoppo sì, ma utile e valente artefice, e ci ha adornato il cielo, ed ha sposato. Afrodite, ed è voluto bene da lei. Ma dei figliuoli tuoi, colei è una pulzellona che ha del maschio, una selvatica, che infine se n’è andata in Scizia, e tutti sanno che quivi uccide i forestieri e li mangia, imitando gli Sciti mangiauomini: Apollo poi spaccia di sapere ogni cosa, fa l’arciere, il ceteratore, il medico, il profeta, ha messe botteghe di oracoli in Delfo, in Claro, in Didimo, ed inganna chi va ad interrogarlo, rendendo risposte a due capi, che si possono prendere da ogni parte, e così sicuro di non fallire, acquista riputazione e ricchezze: i gonzi ci corrono e si fanno abbindolare, ma chi ha un po’ di senno ride di questo profeta che non seppe profetare a sé stesso che egli uccideria col disco un suo zanzero, e saria sfuggito da Dafne, quantunque sì bel giovane e con sì bella chioma. Onde vedo che tu non sei madre di più bella prole che Niobe.

Latona. Eppure questa prole, quella selvatica ammazza-forestieri, e quel falso profeta, so che ti fan male agli occhi, quando li vedi tra gli Dei, e massime quando ella è lodata per bellezza, ed egli sonando la cetra nel convito, è meraviglia a tutti.

Era. Mi fai ridere, o Latona. Quella meraviglia di sonatore saria stato scorticato da Marsia, che lo vinse nella musica, se le Muse avessero voluto giudicar giusto; ma il povero Marsia soverchiato ed aggirato, morì ingiustamente: e quella tua bella vergine è così bella, che accortasi d’essere stata veduta da Atteone, e temendo che il giovane non divulgasse come ella era brutta, gli aizzò i cani addosso. Non dico poi che non farebbe la levatrice se fosse vergine.

Latona. Tu sei superba, o Era, perché sei moglie di Zeus e regni con lui, e però insulti sicuramente: ma come ti vorrò riveder piangere tosto che ei ti lascerà, e discenderà su la terra divenuto cigno o toro.

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17.

Apollo e Ermes.

Apollo. Perché ridi, o Ermes?

Ermes. Perché ho veduto cosa veramente da far ridere, o Apollo.

Apollo. Dimmela, e farai ridere anche me.

Ermes. Afrodite è stata colta con Ares, ed Efesto li tiene tutti e due legati.

Apollo. Come? oh, questa è piacevole.

Ermes. Da molto tempo ei sapeva ogni cosa, e li spiava: ed avendo messa intorno al letto una rete invisibile, vassene a lavorar nella fucina. Ed ecco Ares entra di soppiatto, com’ei credeva; ma Elios lo vede, e ne avvisa Efesto. Poi che salgono sul letto, e sono nel più bello del giuoco; scocca la rete, e si trovano ravviluppati nelle catene, e tosto giunge Efesto. Ella era nuda, e non aveva come nascondersi per la vergogna. Ares da prima tentò di fuggire, e sperò di spezzar quei legami: ma accortosi di non avere altro scampo, si volse alle preghiere.

Apollo. Infine li ha sciolti Vulcano?

Ermes. Niente affatto, ma ha chiamati tutti gli Dei, e ce li ha mostrati in quell’atto dell’adulterio. Entrambi nudi, raccoccolati, legati, non ardivan levare il viso: io aveva tanto diletto a riguardare, quant’essi n’avevano avuto nel fare.

Apollo. E il fabbro non arrossiva di mostrar la sua vergogna?

Ermes. Altro! ei stava presente, e li beffava. Io, se debbo dirti il vero, invidiavo a Ares, che non pure si era sollazzato con una Dea tanto bellissima, ma stava legato con lei.

Apollo. E avresti sofferto d’esser legato anche così?

Ermes. E tu no, tu, o Apollo? Vieni a vedere, t’avrò in gran concetto se a tal vista non ti verrà la stessa voglia.

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18.

Era e Zeus.

Era. Io mi vergognerei, o Zeus, se avessi un figliuolo come il tuo, così frollato e fradicio per ubriachezza con una mitra in capo, con un codazzo di femmine impazzate, ed ei più molle di esse, mena balli a suono di timpani, di flauti e di cetre, e a tutt’altri somiglia che a te suo padre.

Zeus. Eppure questo frollato che ha la mitra e la mollezza delle donne, non solo, o Era, vinse la Lidia, sottomise gli abitatori del Tmolo, e domò i Traci; ma fino dall’India menando questo esercito donnesco, prese elefanti, soggiogò tutta quella regione, e strascinò prigioniero un re che per poco s’attentò di contrastargli. E tutte queste imprese egli le fece tra danze e cori, e tirsi ricoperti di edera, ubriaco, come dici tu, ed invasato di furore divino, E se alcuno ardì di oltraggiarlo, e d’insultare alle sue feste, egli lo punì o legandolo coi tralci, o facendolo sbranar dalla madre come un cerbiatto.1 Vedi imprese gagliarde, e non indegne di suo padre. Che se egli le fa tra scherzi e piacevolezze, nessuno può biasimarlo: specialmente se considera che faria egli sobrio, quando fa questo essendo ubriaco?

Era. Parmi che tu loderai anche la vite, il vino, e le altre sue invenzioni, mentre pur vedi che fanno questi ubriachi barcollanti, che ingiurie dicono a tutti, e come perdono interamente il senno pel bere. Icario, a cui il primo fu dato il magliuolo, fu accoppato con le zappe da quegli stessi che bevevan con lui.

Zeus. Non dire così: né il vino né Dioniso fanno questi effetti, ma la dismisura nel bere, e il riempirsi sconvenevolmente de’ vini più poderosi. Chi bevesse misuratamente, diventerebbe allegretto è festevole, ma nessuno de’ compagni gli farebbe quello che Icario patì. Ma parmi che tu sei ancora gelosa, o Era, e ancora ti ricordi di Semele, se biasimi le più belle imprese di Dioniso.

1 Penso che qui si alluda alla Menade, che sbranò il figliuolo, il quale si beffava delle feste di Dioniso.

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19.

Afrodite ed Eros.

Afrodite. Perché mai, o Eros, tu che vincesti tutti gli al¬tri Dei, Zeus, Poseidone, Apollo, Rea, e me tua madre, solo Pallade non tocchi, e per lei hai la face spenta, la faretra vuota, sei senz’arco e senza dardi?

Eros. Io la temo, o madre, ch’ella mi fa paura con quegli occhi cerulei e con quell’aria di maschile fierezza. Quando io vado per tender l’arco e mirare in lei, ella squassa le creste dell’elmo, ed io mi sbigottisco, e tremo, e mi cadon le saette di mano.

Afrodite. Ed Ares non era più terribile di lei? eppure lo disarmasti e lo vincesti.

Eros. Ma egli mi viene incontro da sé, e mi chiama: Pallade per contrario è sempre sospettosa: ed una volta che a caso la toccai passando, avendo in mano la face, ella mi disse: Se mi ti avvicini, giuro a Zeus, con questa lancia ti passerò fuor fuora, o t’afferrerò per un piede e ti getterò nel Tartaro, o ti squarterò; e m’aggiunse molte altre minacce. Ella guarda sempre in torto, e innanzi al petto porta una figura orribile chiomata di vipere, e di quella specialmente io mi spaurisco, e fuggo quando la vedo.

Afrodite. Dici che temi di Pallade e della Gorgone, tu che non hai temuto il fulmine di Zeus. Ma e le Muse perché non sentono i tuoi dardi? forse anch’esse squassan le creste dell’elmo, e mostrano la Gorgone ?

Eros. Le rispetto, o madre, perché sono venerande, han sempre l’animo ai bei pensieri, e sono intese al canto: spesso mi accosto ad esse, tirato dai loro canti soavi.

Afrodite. Vada anche per queste perché venerande. E Artemide, perché non la ferisci?

Eros. Perché non posso raggiungerla, che va sempre scorrendo pe’ monti: ma pure ella ha un certo amore.

Afrodite. E quale, o figliuolo?

Eros. Di cacciar fiere, e cervi, e cerbiatti, di seguitarli, di saettarli, ed è tutta in questo. Ma il fratel suo, tutto che valente saettatore anch’egli....

Afrodite. So, o figliuolo, che tu spesso l’hai saettato.

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20.

Il Giudizio Delle Dee.

Personaggi: Zeus, Ermes, Era, Atena, Afrodite, Paride.

Zeus. O Ermes, prendi questo pomo, va in Frigia, dal figliuolo di Priamo, che pasce i buoi sull’Ida nel Gargaro, e digli così: O Paride, Zeus comanda che tu, il quale sei bello, ed intendi assai nelle cose d’amore, giudichi tra queste Dee, quale è la bellissima, ed ella in premio della vittoria si avrà il pomo. Ora potete voi stesse andare dal giudice. Non voglio esser io arbitro tra voi, perché io vi amo egualmente, e, se fosse possibile, vorrei vedervi tutte e tre vincitrici: ma è forza dare ad una sola il premio della bellezza, e dispiacere le altre; però io non sarei buono giudice. Il giovanetto frigio, dal quale voi andate, è di sangue reale, e parente di questo Ganimede; e poi è un semplice montanaro, e nessuno lo terrebbe indegno di riguardarvi e giudicare.

Afrodite. Per me, o Zeus, se tu ci dài anche Momo per giudice io sono pronta a presentarmegli. Oh, che potrebbe il ser appuntino appuntare a me? l A queste deve piacere quell’uomo.

Era. Neppur noi, o Afrodite, temiamo, ci fosse anche giudice il tuo Ares; ed accettiam, chiunque egli sia, questo Paride.

Zeus. E a te che ne pare, o figliuola? che dici? Volgi la faccia, ed arrossisci? Così solete fare voi altre fanciulle: ma hai accennato di sì. Andate dunque, e le vinte non se la piglino col giudice, non si sdegnino, non facciano male al giovanetto. Ei non è possibile che siate tutte e tre belle egualmente.

Ermes. Andiam diritto in Frigia: io vo innanzi, voi seguitemi tosto, e di buon animo: io lo conosco Paride, è un bel giovane ed affettuoso, e non ci ha chi meglio di lui definisca questioni d’amore: e un’ingiustizia egli non la faria.

Afrodite. Assai mi piace questo che tu mi di’, che abbiamo un giudice giusto. È smogliato, o ha qualche donna seco?

Ermes. Smogliato in tutto no, o Afrodite.

Afrodite. E come?

Ermes. Parmi che abbia seco una donnetta Idea, non bruttina, ma che sente dell’agresto e del selvatico: egli poi non n’è tanto spasimato. Ma perché mi fai questa domanda?

Afrodite. Dicevo così a caso.

Atena. Ehi tu, tu trapassi il dovere d’ ambasciatore a parlar segretamente con costei.

Ermes. Non dicevam niente di male, o Atena, né contro di voi: ella mi domandava se Paride è smogliato.

Atena. E perché si piglia questo pensiero ella?

Ermes. Non so: dic’ella, che me l’ha domandato così a caso, non a posta.

Atena. Or di’, è smogliato?

Ermes. Non credo.

Atena. Ed ha genio pe’, combattimenti? è vago di gloria ? o è tutto bovaro?

Ermes. Il vero non so dirtelo: ma si dee credere che, giovane com’è, si troveria a menar le mani, e vorria essere il primo nelle zuffe.

Afrodite. Vedi ora? io non ti rimprovero né ti sgrido che parli segreto con costei. Sdegnerebbesi ogni altra; Afrodite no.

Ermes. Ella mi domandava quasi la stessa cosa: non averlo a male né a dispregio, se così nella semplicità le ho risposto. Ma mentre parliamo così andando, abbiamo lasciato gli astri molto indietro, e siamo quasi sopra la Frigia. Io scorgo l’Ida, e tutto il Gargaro chiaramente; e se non m’inganno, anche il vostro giudice Paride.

Era. Dov’è? io non lo discerno.

Ermes. Qui, o Era, riguarda a sinistra, non su la cima del monte, ma su la costa, vedi quell’antro, quella mandra.

Era. Non vedo mandra.

Ermes. Come dici? Non vedi i vitelli, lì, dove io dirizzo il dito, che escono di mezzo le pietre, e colui che scende di quel ciglione col vincastro in mano, e sforzasi di non far più sbrancare la mandra?

Era. Vedo ora: ed è quegli?

Ermes. È desso. Ma poiché siamo già presso alla terra, discendiamo, se vi pare, e camminiamo, per non spaurirlo volandogli addosso all’improvviso. Era. Ben dici, e così facciamo. Ma poiché siamo discese, va innanzi, o Afrodite, e mostraci la via: tu devi ben conoscere la contrada, che spesso ci sei venuta a trovare Anchise.

Afrodite. Io non mi sdegno per motti, o Era.

Ermes. Vi guiderò io, che ho pratica dell’Ida: ché quando Zeus amoreggiava quel suo garzoncello Frigio, io ci venni molte volte per suo comando a spiare il fanciullo: e quando egli era nell’aquila, io volavo con lui, e l’aiutavo a portar quel suo vago: e se ben mi ricorda, appunto da questo sasso ei lo ciuffò. Stava il fanciullo presso la greggia e fistoleggiava, Zeus di dietro piombagli addosso, abbrancalo con gli artigli lievemente, e col becco tienegli la tiara sul capo, ed ei così trasportato tremava, e torceva il collo per riguardarlo, lo allora raccolsi la fistola, che gli era caduta per la paura. Ma ecco il vostro giudice: andiamo a fargli motto. Salve, o mandriano.

Paride. Salve anche tu, o giovanetto. Chi sei, che qui vieni a noi? E chi sono queste donne che meni? Di così belle non sogliono andare pei monti. Ermes. Non sono donne elle, o Paride. Tu vedi Era, e Atena, e Afrodite, e me che sono Ermes; e ci ha mandati Zeus. Ma perché tremi e impallidisci? Non temere: non è male alcuno. Ei comanda che tu sia giudice della bellezza loro, e ti dice: Perché tu sei bello, e sai tutte a dentro le cose d’amore, io affido a te questo giudizio. Saprai il premio di questa lite, leggendo la scritta che è su questo pomo.

Paride. Dammi, vo’ leggerla; dice: La bella l’abbia. E come, o potente Ermes, potrei io, che sono mortale e boscaiolo, esser giudice di bellezza sì meravigliosa, che neppur cape nella mente d’un mandriano? Piuttosto i delicati cittadini potriano fare questo giudizio; che io per l’arte mia potrei solo discernere tra capra e capra qual’è la più bella, e tra giovenca e giovenca. Ma queste sono tutte egualmente belle, e non so come spiccar gli occhi da una e riguardarne un’altra: non vorrei staccarmi da colei che prima mi viene veduta, ma vi rimango fisso con gli occhi e con la mente, e la mi pare bellissima; e se trapasso ad un’altra, anche questa è bella, è incantevole, come le altre che le stanno vicino: sicché da ogni parte elle fioccano bellezze sovra di me, e vorrei come Argo aver occhi per tutto il corpo per rimirarle. Io penso che saria una bella giustizia dare a tutte il pomo. E ci è di più, che costei viene ad essere sorella e moglie a Zeus, e queste gli sono figliuole. Anche per questa cagione quanto non è pericoloso il giudizio?

Ermes. Io non so: ma non si può disubbidire al comando di Zeus.

Paride. Di questa sola cosa falle persuase, o Ermes, che le due vinte non me ne vogliano male, e credano pure che solo gli occhi hanno sbagliato.

Ermes. Elle dicono che così faranno. Ma attendi ora a fare il giudizio.

Paride. Tenteremo: come posso altrimente? Ma prima voglio sapere se basterà riguardarle così come stanno vestite, o converrà farle spogliare per contemplarle il più accuratamente.

Ermes. Questo sta a te che se’ giudice, ordina come vuoi.

Paride. Come io voglio? Vo’ vederle nude.

Ermes. Dispogliatevi : tu rimirale: io me ne ritorno.

Era. Bene, o Paride: e prima io mi spoglierò affinché tu sappi che non ho soltanto le braccia bianche, né vo superba per aver gli occhi di bue, ma che io sono tutta quanta bella.

Paride. Spogliati anche tu, o Afrodite.

Atena. Prima che si spogli, o Paride, fa che ella deponga il cinto, che è incantato, affinchè ella non ti ammalii con esso. Per altro non bisognava venir qui tutta parata ed azzimata come una cortigiana, ma mostrar nuda la propria bellezza.

Paride. Han ragione pel cinto: deponilo.

Afrodite. E perché anche tu, o Atena, non ti togli l’elmo e non mostri il capo nudo, ma scuoti le creste, ed atterrisci il giudice? O temi che non paian brutti gli occhi cilestri senza, la terribilità degli sguardi?

Atena. Eccoti tolto l’elmo.

Afrodite. Ed eccoti il cinto.

Era. Dispogliamoci.

Paride. O Zeus prodigioso! o vista! o bellezza! o voluttà! o come risplende questa vergine maestosa e pudica, e veramente degna di Zeus! Che dolci sguardi ha costei, che soave ed attrattivo sorriso! Ma già mi sono beato a bastanza. Deh, vogliate che io vi rimiri ad una ad una, ché ora io mi confondo, e non so che riguardare, e gli occhi mi sono attratti da tutte le parti.

Afrodite. Così facciamo.

Paride. Discostatevi voi due: rimani tu, o Era.

Era. Rimango io. Rimirami prima attentamente, e poi considera se anche è bello il dono che io ti farò. Se tu giudicherai che sono io la bella, o Paride, tu sarai signore di tutta l’Asia.

Paride. Io non fo questo per doni. Ma ritirati: si farà quello che è dovere. E tu, avvicinati, o Atena.

Atena. Eccomi a te. Se tu, o Paride, sentenzierai che la bella son io, non sarai mai vinto in battaglia, e ne uscirai sempre glorioso: io ti farò pro’ guerriero, e vincitore.

Paride. Non fanno per me, o Atena, le guerre e le battaglie: ora come vedi, tutto è pace in Frigia ed in Lidia, ed il regno di mio padre è tranquillo. Non temere però, né sarai tenuta da meno, benché io non giudico per doni. Ma rivestiti, e riponti l’elmo: ho veduto a bastanza. Venga ora Afrodite.

Afrodite. Son qui a te vicino. Rimirami tutta a parte a parte, non tralasciar nulla, contempla le membra ad uno ad uno; ed ascoltami un poco, o bel giovane. Come prima io t’ho veduto così giovane, e bello, che non so se in tutta Frigia ci sia uno eguale a te, io ho detto: o che bel garzone! peccato che tu non lasci queste rupi e questi sassi, e non vivi in una città, e fai appassire tanta bellezza in questo deserto! Che piaceri hai tu tra questi monti? che godono della tua bellezza i buoi? A te stava bene di tòrre una donna, non di queste rozze e selvatiche che sono sull’Ida, ma una Greca d’Argo, o di Corinto, o di Sparta, come sarebbe Elena, giovane e bella, né punto da meno di me, e tutta amorosa. Ella se pur ti vedesse, ti dico io, lascerebbe tutto e si darebbe a te, e ti seguirebbe, e vorrebbe star sempre teco. Certamente anche tu avrai udito parlare di lei.

Paride. Niente, o Afrodite: ed ora con piacere t’udirei se tu me ne parlassi, e mi contassi ogni cosa.

Afrodite. Ella è figliuola di Leda, di quella bella, alla quale Zeus discese mutato in cigno.

Paride. E che aspetto ha ella?

Afrodite. Ella è bianca, perché nata di un cigno; ella è delicata, perché nutrita in un uovo; spesso va nuda, e si esercita nella palestra: ed è di così fina e ricercata bellezza, che fece nascere una guerra, quando ancor tenerella fu rapita da Teseo. Come prima giunse a fiorire donzella, tutti i migliori Achei vennero a cercarne le nozze, e fra tutti fu scelto Menelao, sangue de’ Pelopidi. Se tu vuoi, io te la darò in moglie.

Paride. Ma come? S’ella è d’altrui.

Afrodite. Sei troppo giovane, e rozzo. So io come aggiustar ogni cosa.

Paride. E come ? vo’ saperlo anch’io.

Afrodite. Tu andrai in Grecia, e farai vista di viaggiare: quando sarai giunto a Sparta, Elena ti vedrà: da quel punto sarà cura mia ch’ella s’innamori di te, e ti segua.

Paride. Questo mi pare incredibile, che ella abbandoni il marito, e voglia venirsene con un barbaro, con un forestiero.

Afrodite. Non darti pensiero di questo. Io ho due bei figliuoli, Imero ed Eros, e te li darò a compagni del viaggio. Eros si porrà tutto in lei, e la costringerà ad amarti; e Imero verserà su di te tutti i suoi vezzi, e ti renderà desiderabile ed amabile: verrò io stessa in aiuto, e mi accompagneranno le Grazie: e così tutti insieme la farem persuasa.

Paride. Chi sa come questo avverrà, o Afrodite! Ma io già mi sento acceso di cotesta Elena, e, non so come, parmi di vederla: già navigo diritto in Grecia, e vo a Sparta, e me ne ritorno menando meco la donna. Oh quanto mi tarda che tutto questo succeda!

Afrodite. Ma tu non sarai amato, o Paride, se prima col tuo giudizio non mi farai conciliatrice e pronuba di queste nozze. Conviene che io ci venga vittoriosa per festeggiare le nozze e la vittoria. Tutto puoi acquistare con cotesto pomo, l’amore, la bellezza, le nozze.

Paride. Temo che dopo il giudizio non ti scorderai di me.

Afrodite. Vuoi ch’io tel giuri?

Paride. No; ma promettilo un’altra volta.

Afrodite. Io ti prometto di darti Elena in moglie, di accompagnarti a lei, e di tornare con entrambi in Ilio; io ci sarò, e farò ogni cosa per voi.

Paride. Ed Eros, e Imero, e le Grazie le condurrai?

Afrodite. Non dubitare: anche il Desio e l’Imeneo io ci menerò.

Paride. A questo patto io do a te il pomo; a questo patto prendilo.

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21.

Ares ed Ermes.

Ares. Hai udita, o Ermes, la superba spampanata di Zeus? Se voglio, ei dice, io collerò dal cielo una catena, e voi afferrandola e traendo di tutta forza, vi affaticherete invano, e non mi trarrete giù; ma se io pur voglio trarre in su, non solo voi, ma la terra ancora ed il mare io terrò appesi in alto. Ed il resto l’hai udito. Che egli sia più valente e più forte di ciascuno di tutti noi, io nol nego: ma superarci tutti quanti, da non poterlo vincere anche se ci mettessimo la terra ed il mare, questa è grossa, e non la credo.

Ermes. Taci, o Ares: non è prudenza parlare così, e tirarci un male addosso per una ciancia.

Ares. E credi che io parli così con tutti? con te solo, che ti so segreto. E sai perché mi veniva più a ridere nell’udirlo così minacciare? voglio dirtene la cagione. Mi ricordavo quando, non ha guari, Poseidone, Era e Pallade gli si levaron contro, e congiuraron di prenderlo, e d’incatenarlo, come ei tremava a verga a verga; ed erano tre! E se Teti impietosita di lui non gli avesse chiamato in aiuto Briareo dalle cento mani, saria stato legato con tutto il fulmine ed il tuono. Ripensavo a questo, e mi veniva il riso a quella elegante sparpagliata di parole.

Ermes. Taci, ti replico; ché può far male a te dire, a me udire di queste cose.

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22.

Pan ed Ermes.

Pan. Buon di, o babbo Ermes.

Ermes. Buon dì: ma come io ti son padre?

Pan. Non sei tu il Cillenio Ermes?

Ermes. Si, sono: ma come tu mi se’ figliuolo?

Pan. Sono tuo bastardello, e nato d’amore.

Ermes. Per Zeus! bastardo forse di un becco e di una capra. Tu mio, se hai le corna, e cotesto naso, e la barba irsuta, e i piè forcuti e caprini, e la coda su le natiche?

Pan. Con queste ingiurie che dici a me, tu dimostri la bruttezza del figliuol tuo, o padre. Le stariano meglio a te, che sai far figliuoli di questo garbo. Che colpa ci ho io?

Ermes. Chi tieni tu per madre? O mi sarei accozzato con una capra io?

Pan. Non una capra, ma ricordati bene, se mai in Arcadia facesti violenza ad una fanciulla libera. Ti mordi il dito: che cerchi? e non ricordi? La figliuola d’Icario, Penelope?

Ermes. E perché ella ti fece non simile a me, ma ad un caprone?

Pan. Ti dirò proprio le parole sue. Quando ella mi mandò in Arcadia, mi disse: O figliuolo, io sono tua madre Penelope Spartana; e sappi che hai per padre il dio Ermes, prole di Maia e di Zeus. Se tu hai le corna, ed i piedi forcuti, non dispiacertene; ché quando tuo padre mescolossi con me, per nascondersi, prese la somiglianza di un capro; e però tu se’ venuto simile al capro.

Ermes. Per Zeus! Mi ricordo di una certa scappata. Dunque io che vo superbo per bellezza, e sono ancora imberbe, sarò chiamato tuo padre; e a mie spese farò rider la gente per sì bella figliolanza.

Pan. Io non ti fo vergogna, o padre; ché io son musico, e so sonar la siringa molto bravamente. Dioniso non può far nulla senza di me, e mi ha fatto suo compagno ed agitatore del tirso, ed io gli guido i balli. Se tu vedessi le greggi mie, quante ne ho in Arcadia e sul Partenio, ne saresti assai lieto. Io sono signore di tutta Arcadia. Ultimamente porsi un grande aiuto agli Ateniesi, e combattei con tanto valore a Maratona, che in premio mi diedero una spelonca sotto la cittadella. Se talora vieni in Atene, vi udirai chi è Pan.

Ermes. Dimmi, hai tolto moglie, o Pan? così mi pare che ti chiamino.

Pan. No, o padre: io son focoso, e non sarei contento di una.

Ermes. E certamente abbranchi le capre.

Pan. Tu motteggi, io mi sollazzo con Eco, con Pite, e con tutte le Menadi di Dioniso: e le mi vogliono un, gran bene.

Ermes. Sai, o figliuolo, che cosa mi farai gratissima, e che io richiedo da te?

Pan. Comanda, o padre; vediamo.

Ermes. Vieni a me, ed abbracciami pure, ma guardati di chiamarmi padre innanzi agli altri.

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23.

Apollo e Dioniso.

Apollo. E che diremo, o Dioniso? che son fratelli nati d’una madre Eros, Ermafrodito, e Priapo, dissimilissimi tra loro per aspetto e per inclinazione? Uno tutto bello, e arciere, e rivestito di gran potere, è signore d’ogni cosa: l’altro è un personcino cascante, mezzo maschio, e a guardarlo non sai discernere se è garzone o donzella. Priapo ha quel del maschio anche troppo.

Dioniso. Non è meraviglia, o Apollo. Non è Afrodite cagione di questo, ma i diversi padri che li han generati: anche da uno padre e da una madre spesso nascono chi maschio, e chi femmina, come voi due.

Apollo. Sì: ma noi siamo simili, abbiamo le stesse inclinazioni, ed ambedue trattiamo l’arco.

Dioniso. Sino all’arco siete simili, o Apollo, e non più in là, ché Artemide uccide forestieri in Scizia, e tu fai il profeta ed il medico.

Apollo. Credi tu che mia sorella goda a stare tra gli Sciti? Ella è deliberata, se capita qualche Greco in Tauride, di mettersi in mare e tornarsene con lui, essendole venute in orrore quelle uccisioni.

Dioniso. Oh! così farà bene. Tornando a Priapo, ti dirò cosa da ridere. Non ha guari fui in Lampsaco, e passando per la città, egli mi accolse ed ospitò in casa sua, e poi che dopo il convito ce ne andammo a letto bene alticci, in su la mezza notte si levò il prode, e.... ma mi vergogno a dirlo.

Apollo. Ti tentò, o Dioniso?

Dioniso. Appunto.

Apollo. E tu che facesti?

Dioniso. Che altro, che riderne?

Apollo. Bene: ei non c’era da pigliarsela a male. E poi è scusabile: ti vide sì bello, e ti tentò.

Dioniso. Oh per questo tenterebbe anche te, o Apollo: tu se’ sì bellino e con si bella chioma, che Priapo anche senza d’aver bevuto ti abbrancherebbe.

Apollo. Ma non m’abbrancherà no, o Dioniso: ché io ho la chioma ed una buona saetta.

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24.

Ermes e Maia.

Ermes. Ed evvi, o madre, un dio in cielo più infelice di me?

Maia. Non dir questo, o Ermes.

Ermes. Come non dirlo? se le faccende m’affogano, se io solo debbo affaticarmi, e non basto a tanti servigi? La mattina, come mi levo, debbo spazzar la sala del banchetto, e rifare il letto, e rassettato ogni cosa, esser pronto ai cenni di Zeus, e andare su e giù per staffetta tutto il dì portando suoi ordini: e tornato, ancor polveroso come sono, mettermi a preparare l’ambrosia. Prima che ci fosse venuto questo garzone per coppiere, anche il nettare doveva mescerlo io. La pena maggiore è che solo io fra tutti non posso dormire la notte, e mi conviene condurre le anime ad Ade, e far da guida ai morti, e star presente al tribunale. Non bastavan le faccende del giorno, andar nelle palestre, fare il banditore nei parlamenti, insegnare ai retori: mi mancava quest’altro rompicapo de’ morti. Almeno i figliuoli di Leda si danno lo scambio, e ciascun d’essi un giorno è in cielo, un giorno in inferno: io poi ogni giorno debbo fare sempre lo stesso. I figliuoli di Alcmena e di Semele, nati di due povere donne, se la godono senza darsi un pensiero: ed io nato di Maia di Atlante, fo il servitore a loro. Ed ecco, ora ritorno da Sidone, dove il Sire mi ha mandato a vedere che faceva la figliuola di Cadmo; e senza darmi un po’ di respiro, mi ha spedito di nuovo in Argo a visitar Danae: e di là, m’ha detto, passando per la Beozia, dà un’occhiata ad Antiope. Io mi sento tutto rotto e stracco: e se potessi, vorrei proprio esser venduto, come su la terra i servi di mala voglia.

Maia. Lascia questo pensiero, o figliuolo: tu se’ giovanetto, e devi fare ogni servigio a tuo padre. Va ora, come egli ti ha commesso, salta in Argo, e poi in Beozia: se tardi, avrai a toccar delle busse; ché chi ama, sdegnasi per nulla.

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25.

Zeus ed Elios.

Zeus. Che hai fatto, o pessimo dei Titani? Hai distrutto ogni cosa sulla terra, avendo affidato il cocchio ad un giovane sventato, il quale dove fece tutto bruciare abbassandosi di troppo, e dove tutto gelare per freddo, allontanando troppo il fuoco. Ha sconvolto e guastato ogni cosa: e se io, accortomi del fatto, non lo avessi rovesciato col fulmine, non ci saria rimasta degli uomini neppur la semenza. Bel cocchiere ci mandasti a guidare il carro!

Elios. Errai, o Zeus; ma non sdegnarti meco, se io mi lasciai svolgere alle tante preghiere del mio figliuolo. Come potevo credere che ne nascerebbe tanto male?

Zeus. E non sapevi quanta cura ci vuole per questo; e come, se punto s’esce di via, il mondo va sossopra? Non conoscevi la foga dei cavalli, e come si deve trattener con forza le redini? Che se si allenta, vincono il freno subitamente: e così ne portavano costui, or a destra, or a sinistra, or indietro, or innanzi, or su, or giù, dove essi volevano: ed egli non aveva modo di contenerli.

Elios. Sapevo tutto questo, e però stavo alla dura, e non gli volevo cedere il cocchio, ma le lagrime sue e di sua madre Climene mi vi sforzarono: e mentre io lo poneva sul cocchio lo ammonii come doveva condurlo, di quanto allentare le redini per montare in su, e poi nello scendere in giù come tenerle salde e non secondare la foga de’ cavalli: e gli dissi che pericolo v’era a non carreggiar diritto. Ma egli, fanciullo che era, vedendosi sovra un seggio fiammeggiante, e da quell’altezza guardando in giù, s’atterri, come era naturale: e i cavalli, che non sentivano la mano mia, sprezzando un fanciullo, usciron di via e fecero questa rovina. Lasciò le redini, credo per paura, e per non cadere, si teneva afferrato all’orlo del seggio. Ma ei già n’ebbe la pena, ed a me, o Zeus, basta il dolore.

Zeus. Basta dici, dopo che hai avuto tanto ardire? Per ora ti perdono; ma per l’avvenire, se ne fai un’altra, se ci manderai un altro cocchiere come questo invece tua, sentirai tosto quanto il fuoco del fulmine è più possente del tuo. Le sue sorelle lo seppelliscano su l’Eridano, dove egli è caduto dal carro, e versando lagrime di ambra sovra di lui, sieno mutate in pioppi. Tu racconciati il cocchio (che vi si è rotto il timone ed una delle ruote), e seguita a carreggiare, raffrenando bene i cavalli. Ma ricordati di tutto questo, e sta in cervello.

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26.

Apollo ed Ermes.

Apollo. Sai dirmi, o Ermes, chi di questi due è Ca¬store, e chi è Polluce, Io non posso discernerli.

Ermes. Quegli che fu ieri con noi era Castore, questi è Polluce.

Apollo. E come li distingui, se ei sono simili?

Ermes. Perché costui, o Apollo, porta sul volto le margini delle ferite avute dagli avversari nel pugilato, e massime di quei colpi che gli diede Bebrico Amico, quando navigavan con Giasone: l’altro non ha segno alcuno, ed è liscio di volto e senza sfregio.

Apollo. M’hai tolta una pena a dirmi questi segni; che essi sono simili in ogni cosa, ciascuno de’ due un mezz’uovo, una stella sul capo, un dardo in mano, e va sopra un caval bianco: onde io spesso ho chiamato Castore chi era Polluce, e Polluce chi era Castore. Ma dimmi un po’, perché non sono con noi tuttadue, ma si scambiano, e ciascuno di loro un giorno è in inferno, un giorno fra noi?

Ermes. Per l’amore che si portano come fratelli. Per ché doveva morire uno dei figliuoli di Leda, ed un altro essere immortale, però si hanno divisa l’immortalità, per goderne ambedue.

Apollo. La divisione è sciocca, o Ermes: essi non si vedranno mai, e non ottengono quello che più desideravano: e come in fatti si vedriano se uno è fra gli Dei, uno è fra i morti? E poi io fo il profeta, Asclepio il medico, tu se’ ottimo maestro nelle palestre, Artemide fa la levatrice, ciascuno di noi fa un’arte utile agli Dei, o agli uomini: costoro che fanno? o debbono mangiare e bere così scioperati, essendo due pezzi di giovani?

Ermes. No: ma hanno l’uffizio di aiutare Poseidone, andar cavalcando sul mare, e se veggono nocchieri in fortuna, posandosi sul naviglio, salvarli dal naufragio.

Apollo. Bella arte e salutare è codesta!

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