Fu uno dei maggiori poeti della tragedia greca (Eleusi [attuale Elefsina] 525 ca - Gela 456 a.C.). Partecipò alle guerre persiane e fu a Maratona nel 490 a.C., nel 480 a.C. a Salamina e molto probabilmente fu anche a Platea. Si recò e visse in Sicilia, alla Corte del tiranno Gerone. Nel 468 se ne tornò ad Atene, ma vi ritornò dieci anni dopo dove trascorse gli ultimi anni della sua vita a Gela.
Delle 73 opere attribuitegli (la prima rappresentata intorno al 500 a.C.) se ne conservano 7 e frammenti di alcuni altri. Il mito, che egli accoglie dalla poesia epica, acquista nelle sue opere valore di una raffigurazione ideale, che assomma le contraddizioni dell'umana esistenza e dello stesso mondo divino. Proprio da questa esperienza dolorosa, portata alla più alta espressione drammatica, nascono per gli uomini la consapevolezza del destino e l'ammaestramento.
A Eschilo si deve l'introduzione del secondo attore sulla scena, che rese più efficace il contrasto drammatico. Il confronto col lavoro di altri drammaturghi nell'ambito degli agoni drammatici portò Eschilo a introdurre nelle sue opere più tarde il terzo attore, arricchendone così le trame e vivacizzandone l'andamento. Si ritiene inoltre che abbia avuto un ruolo importante nello sviluppo dei costumi degli attori, introducendo l'uso delle maschere e dei coturni.
Predilesse la forma della trilogia legata: infatti, ponendo come presupposto la solidarietà, nella colpa come nella punizione, dei membri di una medesima famiglia, il poeta della giustizia divina era in grado di cogliere, nello svolgersi del tempo, quel trionfo della giusta vendetta che non poteva esaurirsi nell'ambito di una sola generazione. Questa tragica catena di delitti e di punizione viene interrotta solo dalla bontà di una divinità pacificatrice (Atena). Così nella Orestea ("Agamennone", "Coefore", "Eumenidi" scritte nel 458 a.C.) unica trilogia superstite, le antiche colpe delle due dinastie dei Pelopidi e dei Tindaridi si assommano nella persona di Oreste, il quale, mentre uccidendo la madre adempie a un volere divino che impone la vendetta del padre ucciso, ne viola un altro che vuole rispetto per i genitori: solo la grazia celeste può liberarlo dalla stretta esasperante. Analoghi contrasti si notano in tutte le altre tragedie ("Danaidi"; "Persiani" rappresentata nel 472; "I Sette a Tebe" scritta nel 467 a.C.; "Prometeo incatenato"(di incerta datazione) narra la punizione inflitta da Zeus a Prometeo, reo di avere sottratto il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini e incatenato quindi a una rupe del Caucaso dove un'aquila gli divora il fegato che continua a riformarsi.).