È costume dei poeti chiedere cento voci, cento
bocche, e desiderare cento lingue per i loro versi,
si tratti di un dramma che reciti a bocca aperta
il tragedo atteggiato a cordoglio, o delle ferite di un Parto
che si svelle il ferro dall'inguine. «A che miri con ciò? Che bocconi
di robusta poesia ingurgiti, perché ti servano cento
gole? I magniloquenti raccolgano nebbie sull'Elicona, se c'è
ancora qualcuno per cui dovrà bollire
la pentola di Progne o quella di Tieste, vivanda frequente di quell'insulso
Glicone. Ma tu non comprimi l'aria con l'ansante mantice
mentre il metallo fonde sul fuoco, né brontoli cupo
gracchiando fra te e te non so che cosa di solenne,
né tendi le gote rigonfie sino a farle scoppiare.
Usi le parole comuni, esperto nei costrutti energici,
nell'eleganza misurata, nello strigliare i vizi spettrali
e trafiggere la colpa con libero gioco. Trai
da qui il tuo dire, lascia a Micene le sue mense
di teste e piedi, attieniti ai pasti plebei».
Davvero non voglio che le mie pagine si gonfino di funebri
ciance buone soltanto ad emettere fumo.
Parliamo in disparte fra noi: ti offro ora, per esortazione
della Camena, il mio cuore da scrutare. Mi piace mostrarti,
Cornuto, dolce amico, quanta parte della mia anima
ti appartenga. Percuoti tu, accorto nel distinguere
ciò che suona pieno dall'intonaco d'una lingua dipinta.
Per questo si ardirei chiedere cento lingue,
per esprimere con voce chiara con quale profondità ti ho accolto
nei meandri del petto, e perché le parole rivelino quanto
d'ineffabile si celi nelle intime fibre del mio cuore.
Appena la porpora, custode dell'adolescenza, mi abbandonò timoroso
e il ciondolo infantile fu appeso in dono ai succinti Lari,
quando i piacevoli compagni e il fascio di pieghe della toga
ormai bianca mi permisero di guardare impunemente
tutta la Suburra, e il cammino è incerto e l'errore inconsapevole
della vita conduce le trepide menti nella biforcazione dei crocicchi,
io m'affidai a te. Tu accogli la mia giovane
età, o Cornuto, nel tuo seno socratico. Allora il regolo,
con benefico inganno, al solo avvicinarsi corregge le storte
abitudini, la ragione incalza il talento che vuole essere
vinto, e sotto il tuo pollice assume un industre sembiante.
Ricordo, trascorrevo lunghe giornate con te,
e per cenare insieme sottraevo le prime ore alla notte;
comune il lavoro, e ugualmente insieme disponiamo il riposo,
riposiamo dai faticosi impegni con una casta mensa.
Invero non dubitare di ciò, per norma sicura concordano
i nostri giorni, guidati da un'unica stella: o la Parca,
tenace nel vero, tiene le nostre vite sospese
sull'equilibrata Bilancia, o l'ora scoccata degli amici
fedeli divide i concordi destini di noi due fra i Gemelli
e col favore di Giove vinciamo insieme il malefico Saturno:
non so quale,, ma certo un astro mi conforma a te.
Mille le specie degli uomini, e diversi gli usi della vita;
ognuno vuole il suo, né si vive d'un solo desiderio.
Questi, sotto il sole d'oriente, scambia con merci
italiche il rugoso pepe e i granelli di cumino che inducono
il pallore; questi, sazio, preferisce ingrassare in un sonno
vinoso; un'altro si compiace del Campo; un'altro lo rovinano
i dadi; quello è sfatto dalle donne; ma quando la pietrosa
gotta li avrà colpiti alle giunture, rami secchi
d'un vecchio faggio, ormai tardi piangeranno la vita
trascorsa in grevi giorni e in luce palustre.
Tu invece ti compiaci di impallidire sulle notturne carte;
coltivi i giovani, purifichi le loro orecchie per seminarvi
la messe di Cleante; apprendete di qui, ragazzi e vecchi,
il preciso fine dell'animo, il viatico alla infelice canizie!
«Domani sarà lo stesso». «Domani? quasi mi facessi
un grande regalo». Ma quando è venuto il giorno seguente,
il domani di ieri è già consumato: altri domani
rapiranno questi giorni, e sempre resterà una piccola
riserva di domani. Per quanto vicina a te e sotto
lo stesso timone, invano inseguirai la ruota che gira,
se corri come ruota posteriore e sull'altro asse.
V'è bisogno di libertà, ma non di quella per cui
qualunque Publio della tribù Velina se la sia meritata,
ottiene con la tesserina un po' di farro scabbioso. Ahi,
sterili di verità coloro che una giravolta trasforma in Quiriti!
Ecco Dama, stalliere da due soldi, cisposo per il cattivo
vino, bugiardo anche per un pugno di foraggio: il padrone
lo gira, e dalla giravolta di un attimo esce un Marco Dama:
cribbio! Se garantisce Marco rifiuteresti un prestito? Impallidisci
per un verdetto di Marco? ha parlato Marco: è così; firma
e sigilla gli atti, o Marco. Questa è vera libertà,
ce la dona il pileo. «O chi altro è libero se non chi può vivere
a suo piacimento? Se posso vivere come voglio, non sono
più libero di Bruto?» «Concludi male», disse allora
uno stoico, lavatosi l'orecchio con abrasivo aceto:
«il resto lo accetto, ma togli quel posso e quel voglio».
«Dopo che grazie alla bacchetta mi allontanai dal pretore, mio
padrone, perché non dovrebbe essermi lecito ogni
desiderio, eccetto quelli vietati dal codice di Masurio?»
Ascolta, ma prima ti cadano dal naso l'ira e le grinzose
smorfie mentre ti estirpo dall'animo i pregiudizi delle nonne.
Non è il pretore che può dare agli stolti il delicato senso
del dovere e permettere loro la pratica d'una vita travolgente:
più presto adatteresti la sambuca a quel pezzo di facchino.
Ti contrasta la ragione, sussurrandoti in segreto che non è lecito
accingerti a ciò che, nel farlo, puoi solo guastare.
La legge di natura, comune a tutti gli uomini, ingiunge
l'ignoranza che non può nulla, osservi almeno i divieti.
Se diluisci l'ellèboro, non sai fermare al punto giusto
l'ago della bilancia: te lo vieta l'arte medica.
Se un contadino con gli zoccoli pretende di comandare una nave e non sa
nemmeno qual è Lucifero, Melicerta griderebbe che il pudore
e scomparso dal mondo. L'arte della vita ti ha insegnato a camminare
con passo diritto, e sai distinguere l'apparente dal vero,
affinché non batta falsa una moneta d'oro che ha sotto
il rame? E le cose da perseguire e a vicenda quelle da evitare
le hai segnate, le prime con il bianco di creta, le altre con il carbone?
Sei moderato nei desideri, in una casa modesta, dolce
con gli amici? Secondo il bisogno stringi o apri i sacchi
del tuo grano? Riusciresti a non chinarti per raccattare una moneta piantata
nel fango senza ingoiare d'un sorso l'acquolina mercuriale?
«Possiedo le qualità che dici». Se avrai parlato sinceramente,
sarai libero e sapiente, con il favore dei pretori e di Giove.
Se invece tu che eri poc'anzi della nostra farina,
sei sempre della stessa pelle, e sotto un limpido volto
conservi nel cuore corrotto la natura dell'astuta volpe,
riprendo ciò che ti avevo concesso prima e ritraggo
la fune. La ragione ti è stata avara: se stendi un dito,
sbagli. Eppure che c'è di più esiguo? Con nessuna quantità
d'incenso otterrai che agli stolti aderisca mezz'oncia, un'inezia,
di bene. Non si possono mescolare saggezza e stoltezza. Se per il resto
sei un terrazziere, non potrai danzare, anche per tre sole
battute, il satiro di Batillo. «Ma io sono libero!» Da che
lo deduci, soggetto a tante schiavitù? Conosci soltanto
il padrone che ti libera con la bacchetta? Se ti gridano: «Ragazzo,
portami le striglie al bagno di Crispino. Muoviti, bighellone!»,
l'aspro comando non ti scuote, e nulla di esterno penetra
ad agitarti i nervi. Ma se i padroni ti nascono nel fegato malato,
come scamperai con minore pena di colui che la frusta
e il timore del padrone spingono a portargli le striglie? È mattina
e pigro continui a russare. «Àlzati», dice l'Avarizia,
«su, àlzati». Rifiuti. Insiste: «Àlzati». «Non posso».
«Àlzati». «A che fare?» «E lo chiedi? reca saperde dal Ponto,
castorio, stoppa, ebano, incenso, e vino di Cos
che scivola in gola, scarica per primo il pepe nuovo
dal cammello assetato. Traffica, spergiura». «Ma Giove sentirà».
«Via, gonzo, passerai allegro il tempo a bucare
con un dito una lustra saliera se cerchi di vivere d'accordo
con Giove!». Vestito alla svelta carichi il sacco e il barile sui servi.
Nulla impedisce che su un vasto battello divori
l'Egeo; ma pronta la Baldoria ti chiama in disparte
e ammonisce: «Dove ti precipiti, folle, dove? Che cosa
ti salta in mente? Nel petto infiammato ti si gonfia con tanta
maschia energia la bile che un'urna di cicuta non la placherebbe?
Tu attraversare il mare? tu mangiare su un banco,
appoggiato ad attorte gomene e a un orcio che odora
di rosatello di Veio guastato dalla cattiva pece?
Che cerchi? che il denaro accresciuto qui modestamente con l'interesse
del cinque per cento, ti frutti con avido sudore l'undici?
Gòditela; prendiamo a volo le dolcezze, la vita allegra
ci appartiene; cenere e ombra e favola diverrai.
Vivi memore della morte; l'ora fugge, l'istante
in cui ti parlo è già passato». Ora che fai?
Due ami opposti ti lacerano. Quale seguirai? Occorre
che a vicenda li subisca con alterno ossequio, e a vicenda
li sfugga. Né tu potrai dire, una volta resistito
all'incalzante comando, che hai rifiutato di obbedire: «Ormai ho spezzato
i legami»; infatti anche una cagna dibattendosi strappa
la catena, ma fuggendo, con il collo ne trascina un lungo frammento.
«Davo, presto, voglio che mi creda, intendo finirla
coi tormenti passati» - ma Cherestrato dice questo mordendosi
le unghie a sangue -. «O dovrei disonorare parenti così
a modo? con la mia sinistra fama dovrei frantumare
le sostanze paterne dinanzi a una turpe casa, mentre
canto ubriaco, con la fiaccola spenta bagnando ben bene
la porta di Crìside? "Bravo, ragazzo, rinsavisci. Sacrifica
un'agnella agli dèi redentori". «Ma piangerà, Davo, se la lascio?»
«Scherzi, si scaglierà su di te, ragazzo, a colpi delle sue rosse
pianelle, non trepidare e non cercare di rodere la fitta rete,
ora feroce e violento; ma se ti chiamasse, "Subito", diresti».
«Che fare dunque, non andarci neanche ora
se mi chiami e sia lei a supplicarmi?». «Se uscisti di lì interamente,
neanche ora». È qui, è qui l'oggetto della ricerca,
non nella verga agitata da uno stolto littore.
forse padrone di sé l'adulatore che l'inamidata Ambizione
porta in giro con la bocca spalancata? «Vigila e getta
ceci abbondanti al popolo che tumultua affinché anche
da vecchi, seduti al sole, ricordino le nostre Florali».
Cosa di più bello? Ma al ricorrere dei giorni di Erode, quando
le lucerne cinte di viole sulle unte finestre emanano
una grassa fumea e sguazza la coda del tonno
in cerchio nel rosso catino e la bianca brocca e ricolma
di vino, muovi silenzioso le labbra e impallidisci al sabato
dei circoncisi. Allora i neri fantasmi e i pericoli che derivano
dall'infrangersi dell'uovo, e i giganteschi galli, e la guercia sacerdotessa
con il sistro, introducono in te gli dèi che gonfiano il corpo
se al mattino non gusti i tre capi d'aglio prescritti.
Ma prova a dire ciò fra i centurioni che soffrono di varici.
Subito l'enorme Puliennio scoppia in una grossolana risata
e per meno di cento assi ti offre all'asta cento Greci.