Antenore tornato appena a Troja
Insieme con Taltibio, il popol tutto
Corre, e brama saper quel che coi Greci
Si sia conchiuso. Antenore promette
Al dì vegnente riferirgli il tutto,
E così segue il suo cammino in casa:
Quì con Taltibio, e colli figli suoi
Siede a lauto convito, e in desinando
A’ figli inculca di serbar fedele
Amicizia coi Greci, e che null’altro
Esser lor deve a cuore, indi d’ognuno
De’ Greci loda la bontà, la fede;
E finito il Convito ognun sen parte,
A ristorar del dì col sonno i danni.
All’apparir del di novello ognuno
Corre al consiglio; e desiosi tutti
Aspettano d’udir qual fine mai
Sarebbe per venire a tanti mali:
Quando Antenore venne, e insiem Taltibio,
E poco dopo Enea, e dopo lui
Priamo, ed i figli: e a quel venendo imposto
Di narrar ciocchè udito area dai Greci,
Antenore così prese a parlare.
Grave è per noi, o principi Trojani,
Guerra aver mosso ai Greci, e assai più grave
E dura cosa poi aver offeso
Per una donna i nostri antichi amici,
Che discesi da Pelope per sangue
Ci son congiunti ancor: e se dobbiamo
Toccar scorrendo li passati affanni,
Quando la Patria ha respirato mai
Da sue sciagure, o son giammai mancati
I pianti a noi, e le disgrazie ai nostri
Fidi compagni? E chi non ha perduto
Nella guerra gli amici, ed i propinqui,
E i figli suoi? Nelle sciagure mie
Gli affanni altrui, per ricordar soltanto,
Che non soffersi nel mio figlio Glauco?
La di cui morte assai m’è stata acerba,
E pur mi diè un cordoglio assai maggiore,
Quando con Alessandro andò a rapire
Elena a Menelao; ma del passato
Dimentichiam le tracce. A1l’avvenire
La nostra attenzion tutta volgiamo.
Sono uomini li Greci di virtute,
E di fede osservanti, e negli ufficj
D’umanità, di cortesia li primi.
Testimonio n’è Priamo, il quale in mezzo
Al tumulto maggior delle discordie,
Della loro pietà provonne il frutto:
Nè mosser tosto i Greci a noi la guerra,
Ma dopo delli nostri conosciuta
La perfidia, e le insidie apparecchiate
Contro i loro legati, e delle quali
(Diciamo il ver) fu Priamo co’ suoi figli
Autor primiero; a cui s’aggiunga Antimaco,
Il qual, perduti i figli ultimamente,
Ha di sua iniquità pagato il fio.
E tutto questo s’è da noi sofferto
D’Elena per cagion; di quella donna,
Che nemmeno li Greci aman d’avere.
Abbiasi dunque in la città colei,
Per cui popoli amici, e mai molesti
Furono offesi, e dileggiati tanto:
Chi fia di ciò contento, o chi piuttosto
Non pensa, che pregar dobbiamo i Greci,
Che tal donna ricevansi da noi?
Non placheremo almen per l’avvenire
Questi popoli offesi, a cui si sono
Tante sciagure, e per tant’anni inflitte.
Io quinci partirommi, e andrò lontano,
Per non veder nostre miserie estreme,
E di questa città, in cui fu un tempo,
Ch’era giocondo l’abitarvi, quando
Ai compagni, agli amici, ed ai parenti
Serviva di rifugio. Ora all’incontro
Qual sicurezza in lei, e qual rovina
A temer non ci resta? E poi con quelli,
Ch’han procurata la total sciagura
Non consento abitarvi. Abbiam sepolto
Finor coloro, che la cruda guerra
Ci tolse, e per pietà sol de’ nimici,
Ma dopo che gli altari profanati
Furo, e de’ Dei le immagini macchiate
Di sangue uman per nostra colpa, allora
Questo perdemmo ancor, ed agli estinti
Fu negata la tomba, e quegli onori,
Che il costume agli estinti ha consacrati;
Locchè per l’avvenir fate, che almeno
Non abbia ad accader. Si dee la Patria
Redimere con oro, ed altri doni,
Ed essendovi qui case assai ricche,
Contribuisca ognun quanto più puote
Per le sue facoltà. S’abbia il nimico
Per salvar nostra vita almeno or quello,
Che fra breve fia suo, noi tutti uccisi:
Diansi de’ Dei, e delli tempj ancora
Gli ornamenti migliori, e sian il prezzo
Della salute della Patria nostra;
Priamo tengasi sol le sue ricchezze,
E godasi di quel, che fu rapito
Con Elena da Sparta, e vegga desso
Come usarlo potrà fra le rovine
Della cadente Patria. Or noi dai nostri
Mali siam tutti uniti, e il nostro è un solo
E comune interesse. A questi detti
Dalle lagrime ancora accompagnati
Tutt’insieme de’ gemiti la voce
Fecero risentire, e al cielo alzate
Le mani in tanta avversità, lo sguardo
Volgon a Priamo, e a lui chieggono quando
Verrebbe il fin alle miserie loro?
Tutti alla fine ad una istessa voce
Gridano, che si debba ad ogni prezzo
La Patria liberar. Priamo si straccia
Fra gemiti la chioma, e pur non desta
Pietà in alcuno, essendo in odio a tutti,
Come colui, ch’era de’ Dei nimico:
Egli voluto avria, che ciò, vivendo
Alessandro ed Ettorre, almen si fosse
Cominciato a trattar, ma nel passato
Essendo inutil cosa il volger l’occhio,
Al presente mirar sol si dovea,
E a quello provveder. Ei concedeva
Tutte le sue ricchezze, acciò si fosse
Liberata la Patria, e ‘l commetteva
Ad Antenore, e poichè a tutti in odio
Ei si vedea, la libertà lasciava
Al Consiglio d’agire a modo suo,
Promettendo di aver tutto per rato,
Quanto risolverebbe; e della sua
Presenza liberò tutto il senato:
Allor partito il Re, fu risoluto,
Che Antenore, ed Enea fossero ai Greci
Andati, per spiar quale si fosse
La di lor volontà: così disciolto
II Consiglio, a sua casa ognun ritorna;
Elena a mezzanotte a trovar venne
Nascostamente Antenore in sua casa,
E sospettando d’esser consegnata
Al marito, di cui l’ira temeva,
Il prega, che per lei anche facesse
Appo i Greci parola, e per lei prieghi,
E suppliche porgesse a Menelao;
Giacchè fu troppo chiaro, essendo morto
Alessandro, per Elena fu Troja
Un domicilio ingrato, ed odioso,
E ritornar desiderava ai Greci.
Antenore, ed Enea al nuovo giorno
Ratti vanno alle navi, ed ogni cosa,
Che s’era nel Consiglio de’ Trojani
Stabilita, raccontano alli Greci,
Quindi a fissar quel che convenga, a parte
Si ritiran dal volgo; ove trattata
La somma delle cose, e dello Stato,
Fanno d’ Elena ai Greci manifesta
La volontà qual sia, per lei perdono
Implorando: ed infin fu stabilito
Il tradimento ed il tenor di quello.
Quando poi parve il tempo, a Troja venne
Diomede, e Ulisse, e non Ajace allora,
Che si volle tener lontan da Enea,
Ma tosto quei, che dalla tocca a basso
Venian, fecero noto ai senatori,
Che nel palagio era avvenuto il caso,
Che una stanza caduta, uccisi avea
D’Elena, e d’Alessandro i tre figliuoli,
Che nome avean Bunomo, Ido, e Corenio,
Quindi il consiglio differito, i Greci
Passano presso Antenore la notte.
Dissegli questi allor: Evvi un oracolo,
Che rovina minaccia alli Troiani,
Se il Palladio, che sta dentro del tempio
Di Minerva portato unqua si fosse
Fuor delle aura; imperocchè del cielo
Era discesa quella sacra immago
Antichissima al tempo, che fondava
Ilo il tempio, a Minerva, e non ancora
Era coverto; e che scendendo, avea
La sua stanza da se ivi occupata;
Che l’immagine santa era di legno;
Ed animato dalli nostri Duci
A far quanto giovevole potrebbe
Essere ai Greci. Egli promise tutto,
Quanto dall’opra sua si desiava:
Indi fu stabilito, e concertato,
Che sulli patti a stabilir la pace
Le proposte de’ Greci ardue sembrando,
Senza conchiuder nulla, ei sen verria
All’esercito, acciò nissun sospetto
Aver potrieno li Trojani. In questo
Stato di cose, appen comparso il giorno,
Sen ritornano i Duci alle lor navi,
E Antenore cogli altri de’ Troiani
Principi a ritrovar Priamo sen vanno:
L’esequie intanto d’Alessandro ai figli
Convenia celebrar, e ‘1 terzo giorno
Passato in queste, fu spedito Idèo
Nel nostro campo a richiamare i Duci;
Quali partiti, ed intromessi, essendo
Lampo presente, il qual molta influenza
Cogli altri del partito avea in consiglio,
Molte dissero cose, e soprattutto,
Che ciocch’era accaduto, il risultato
Era del mal consiglio di coloro,
Che reggevan gli affari, e non già d’essi,
Che dai figli del Re sempre sprezzati
Fur per l’addietro, e ch’essi per violenza
Non liberi da se contro li Greci
Avevan combattuto. E ciò succede
A tutti quei, che al dì apron le luci
Sotto il dominio altrui; che debbon fare
Quanto al potere altrui piace d’imporre;
Per locchè cosa degna era de’ Greci
Il perdonare a quei, che per la pace
Consigliarono sempre, e che i Trojani
De’ cattivi consigli avevan troppo
Già pagata la pena; e queste, ed altre
Cose fur dette, e quindi a stabilire
La quantità del premio si devenne:
Allor chiese Diomede per la pace
Talenti cinque mila di sol oro,
Altrettanto d’argento, e cento mila
Moggi di grano, e ciò per anni dieci.
Tutti tacendo, Antenore rispose,
Ch’essi a modo de’ Greci in quest’affare
Non trattavan per Dio, e che il costume
Lor piaceva de’ barbari piuttosto,
Che cercand’essi un’impossibil cosa
Portavan guerra in infingendo pace,
Che Troja non avea tant’oro e argento
Quand’essa prezzolò tanti soldati
Fatti altronde venire in sua difesa,
E che se duri, ed ostinati in loro
Avarizia sen stean, alli Trojani
Restava ancor di chiudere le porte,
Arder lor tempj, e in la città se stessi
Ardere, e ritrovar rogo, e sepolcro.
Diomede replicò: Noi no, Troiani,
Che non venimmo dalla Grecia a: Troja,
Per compatir vostre sciagure estreme,
Ma per portarvi guerra, e far vendetta
Di voi, che foste a provocarci i primi
Con vostre ingiurie, insidie, e tradimenti;
Se a pugnar dunque voi siete disposti,
Son pronti i Greci, e se bruciar volete
Troja, e voi stessi in lei, noi nol vetiamo,
Chè intenzion de’ Greci è di punirvi,
E vendicarsi del recato oltraggio.
Panto richiese allor, che di tal cosa
La risoluzion sia differita
All’altro dì. Quindi li nostri duci
Appo Antenore vanno, ed indi al tempio
Per visitare della Dea Minerva
L’augusto simulacro, ossia il Palladio.
Mirabile portento apparve intanto
Nell’apparecchio delli sacrificj,
Che dal foco non fur arsi e consunti,
Ma dall’ostie foggia, e si scostava.
I popoli smarriti, e perturbati,
Per accertarsi dell’augurio, all’ara
Corron d’Apollo, e là le interiori
Disposte, e avvicinatavi la fiamma,
Non sol non le attaccò, ma cadde in terra:
Tal spettacolo in ver indusse in tutti
Gran terrore, e spavento, il qual più crebbe
Quando un’aquila ratta ivi discese,
Tolta dall’ara cogli artigli suoi
Delle viscere parte, in aria torna,
E volando alle navi delli Greci,
La reca, e cede lor la sua rapina;
Locchè fu dai Trojani aggiudicato
Al più funesto, e disperato augurio;
Ma Diomede, ed Ulisse altrove il guardo
Rivolgendo, facevano sembiante
Nulla avvertir, e ‘l loro passeggio intanto
Seguivano pel foro, e i capi d’opra
Della città considerando attenti,
Li lodavano assai. Ma nelle navi
II prodigio medesimo stupore
Anche ai Greci produsse; e allor Calcante
A sperar gli esortò, che in breve tempo
Di ciocchè Troja avea, essi i signori
Ne sarebbero inver. D’un tal prodigio
Ecuba appen ne fu informata, e tosto
Corse a placare i Dei.Venne ad Apollo,
Venne a Minerva, e indisse i sacrificj,
E le vittime opime a quelli offerse
Su i loro altari; e nel voler, che il foco
Consumate le avesse, oh gran prodigio!
Il foco si smorzò: Cassandra allora
Ispirata dal Dio, di cui godeva
Il profetico spirto, ordinò tosto,
Che le vittime fossero portate
Sul sepolcro d’ Ettorre, e ciò a motivo,
Che sdegnavan li Dei quei sacrifìcj
Per l’empietà d’aver contaminato
II tempio, e ‘l nume, trucidando Achille;
E cosi i tori, ch’erano immolati,
Messi d’Ettorre sul sepolcro, il foco
Incontinente consumò. La sera
S’avvicinava intanto, e i nostri duci
Ritornano d’Antenore alla casa,
Il qual nascostamente a notte buja
Al tempio venne di Minerva, ed ivi
Con motti prieghi, e con promesse ancora
Di non piccioli doni il sacerdote
Teana indusse, e persuase alfine,
Che gli dasse il Palladio della Dea,
E avuto, ai nostri venne, e la promessa
Misteriosa immagine recogli,
Quale i duci la notte a fidi messi
Ben avvolta la diero, e su d’un carro
D’ Ulisse al padiglion vi fu recata.
Raccolto nel mattin poscia il consiglio,
Ed entrati li nostri a parlamento
Antenore fingendo aver paura
D’aver col suo discorso i Greci irati,
Chiese loro perdon, se per la patria
Avea male de’ Greci ragionato;
Cui rispondendo Ulisse: In noi lo sdegno
Non si muove perciò, ma sol c’incresce,
Che si tarda a conchiudere la pace,
Maggiormente perchè c’invita il mare
A tornar nella Grecia, e che fra breve
Si potrebbe cangiare a nostro danno.
Dopo lungo parlar d’ambe le parti
Fu conchiuso alla fin, che della pace
Fora prezzo non arduo il dar due mila
Talenti d’oro, e simili d’argento,
E disciolto il consiglio, i Greci duci
Fan ritorno alle navi, acciò l’avviso
Recassero ai compagni. Ivi raccolti
I capitani tutti, alfin fan noto
Ciocchè s’era trattato, e del rapito
Palladio ancor contezza ad essi danno,
E per comun consiglio anche i soldati
Conscii ne furo, e piacque a ciascheduno
Offerire a Minerva un degno dono.
Fu chiamato in consiglio Eleno allora,
E tutto ciò ch’era accaduto in modo,
Come se stato fosse egli presente
Loro manifestò, quindi soggiunse
Che il fatale momento era venuto
Dell’eccidio Trojan; giacchè l’estremo
Sostegno era il Palladio di Minerva,
Qual tolto via dal tempio, or le restava
Sol la distruzione. Il dono poi
Ai Trojani fatale, e che a Minerva
Offrire si dovea, era un cavallo;
Fabricato di legno in mole enorme,
E per la cui grandezza abbatter parte
Del muro si dovea, per dargli entrata
Sin dentro alla città. Quindi sul Padre,
E sul destin de’ suoi ei riflettendo,
Sciolse misero pianto, e pel dolore
Perdè l’uso de’ sensi, e cadde a terra,
Pirro allora il raccolse, e confortollo,
E condottolo seco, il fe’ guardare,
Temendo, che il tradisse il patrio amore,
E quanto era disposto, alli nimici
Facesse manifesto. Eleno accorto
Delli dubbj di Pirro, invan (gli disse)
Temi di me, e che li miei secreti
Fian disvelati altrui; anzichè appena
Rovinata la patria, io nella Grecia
Teco verrommi a permaner più tempo:
Così, come avev’Eleno disposto
Fu l’opra cominciata, e per lo mezzo
D’Epèo, e per Ajace una gran copia
Di legnami alla fabbrica voluti
Fu recata nel campo, e mille mani
Mille vibrano ognor colpi di scure.
Dieci de’nostri duci intanto vanno
A Troja a confirmar la data pace,
E sono eletti a quest’ufficio Ulisse,
Diomede, e Idomenèo, e Filottete,
Ajace Telamonio, e Merione,
Nestore, Pirro, Troo, ed Eumelo,
Quali giunti nel foro, il popol tutto
Gli fa corona intorno in lieto aspetto,
Comechè già venuto il fin si fosse
Delle patrie sciagure: allora ognuno
Corre, si affolla, e li saluta, e abbraccia.
Per Eleno pregava il Re li Greci,
Ch’Eleno tra suoi figli era il più caro
Al paterno suo cor pe’ suoi costumi,
E per la rara sua somma prudenza.
Quando poi parve il tempo, un gran convito
Ordinato in onor de’ Capitani
Pubblicamente celebrossi, e ai Greci
Antenore serviva, ed ogni cosa
Benignamente loro egli offeriva.
Indi si va in Senato, e sono i nostri
Anche introdotti, e a cadaun la mano
Toccata in segno d’amicizia e pace,
È stabilito, che nel dì seguente
In mezzo al campo s’alzino gli altari,
Su cui la sacra fè con giuramento
Solennemente fosse confirmata.
Quanto s’era prescritto, il dì seguente
Adempito trovossi, e concorrendo
Tutto il popol, le donne, ed i fanciulli,
Si diè principio al sacro rito; e il primo
Giurò Diomede, e poi giurovvi Ulisse,
Ma d’osservar quello però, che s’era
Trattato con Antenore, chiamando
Testimonio al grand’atto il padre Giove,
La madre Terra, il Sol, la Luna, e ‘1 Mare;
Le vittime di poi scisse in due parti
Una guardando il Sol, l’altra le navi,
Vi passaro per mezzo. Indi il Trojano
Antenore passò, lo stesso ancora
Giuramento affermando; il qual compiuto,
Torna ciascuno ai suoi, e somme lodi
Ad Antenore davano i Trojani,
Ognun l’onora come Dio, che avea
Liberata la patria, e solo autore
Della pace co’ Greci ognun l’appella,
Sì finita la guerra, a ciascun piace
Or alle navi delli Greci andare,
E a questi divenire insino a Troja,
E trattar seco come vecchi amici.
Ciò fatto, gli alleati de’Troiani
Rallegrandosi loro della pace,
Senza aspettar, che i Barbari premiato
Avessero i perigli, e le fatiche
Sparte per essi, chè di tanta fede
Non li credean capaci, alle lor case
Cominciaro a tornar felicemente.
Presso le navi intanto erasi alzato
Per opera d’Epèo il gran cavallo,
Ch’Eleno avea predetto, ai di cui piedi
Furo apposte le ruote, acciò potesse
Scorrer più facilmente; e già la fama
Sparso avea, ch’era quegli un dono offerto
Dalli Greci a Minerva: e intanto Enea
Con Antenore in Troja il peso d’oro
Pattuito accoglievano d’intorno
Da tutt’i cittadini, e di Minerva
Il deponean nel Tempio, e i Greci inteso
Avendo, che partivansi i compagni,
Che portato soccorso aveano a Troja,
Eran molto più lieti, e più cortesi
Si mostravan co’ Barbari, volendo,
Che niun sospetto gli venisse in mente
Della pace non vera, e insidiosa.
Già terminato alfin del gran cavallo
La prodigiosa mole, alle trojane
Mura il fanno accostar, spargendo voce,
Che un tanto dono, ed a Minerva sacro
Esser dovea con tutta riverenza
Ricevuto appo d’essi, e rispettato;
Per locchè de’ Trojani il popol tutto
Divoto, riverente, e rispettoso
Innanzi al dono alla gran Dea dicato
Corre dalla città; con sacrifici
II dono accetta, e fa, che più vicino
S’accostasse alle mura, ognun la mano,
Uomini e donne all’opera prestando;
Ma non potendo per la porta entrare,
Son d’avviso, che sian rotte le mura,
E che fosse in città condotto; alcuno
Non vi fu, che altramente allor pensasse:
Tanto a, menar nella città il cavallo
Erano tutti desiosi, e intenti!
Così quel muro da tant’anni intatto,
Sacro, inviolato, e che la fama disse,
Che Nettuno, ed Apollo avesse eretto,
Fu per man de’ Trojani or rovinato:
Ma posciachè in gran parte il muro a terra
Fu gittato, per ordine de’ Greci
Fu vietato menarlo alla cittate,
Se pria non fosse loro il pattuito
Peso d’oro, e d’argento misurato.
Così l’opra intermessa, e rovinate
Mezzo le mura, Ulisse fe’ venire
Alle navi gli artefici di Troja,
Per racconciarle; e posciachè l’armata
Fu fornita di tutto, e fu pagato
II prezzo della pace, allor concesso
Fu ai Trojani condur dentro le mura
Il cavallo alla Diva offerto in dono.
Chi vi potria narrar le feste, e i giuochi
Di questo dì, che fu nel trojan foro
Il cavallo menato? Ognuno a gara
Lo spinge, e tira, e uomini, e fanciulle,
Giovani, e vecchi, e le matrone istesse
Godon toccar colla lor man la fune
Destinata a tirarlo. In questo mentre
Imbarcala ogni cosa, ed arso il resto,
Partono i Greci, ed al Sigèo ne vanno,
Per attender la notte. E quando il vino,
L’allegria della festa, e la tranquilla
Sicura pace, in cui ciascun si stea,
Gli ebbe nel sonno immersi, i Greci allora
S’accostan chetamente alla cittate,
Ed osservato il segno, che Sinone
Dovea loro con fiaccola mostrare;
Penetraro le mura, e in varj luoghi
Della città divisi, e assediati
Dai varj corpi delle loro armate,
Dato il segno d’accordo concertato,
Cominciossi la strage; e chi per sorte
Si trovava per strada, e per le case,
Pe’ tempj delli Dei, ne’ sacri luoghi,
E ne’ profani, ovunque era ammazzato;
E se alcuno avveduto all’armi corre,
O per salvarsi a frettolosa fuga,
È sopraggiunto, e ucciso: a tanta strage
Nissun fin si facea, che innanzi ai padri
S’uccidevano i figli, e innanzi a questi
Era scannato il genitor; presente
Chi fu prima al morir de’ suoi più cari
Era dopo anche a lui morte apprestata;
Nè la morte bastò per l’esterminio
De’ Barbari, che poste pria le guardie
Alle case d’Antenore, e d’Enea
Dier fuoco alla città, perchè l’incendio
Uccidesse chi al ferro era scampato.
Priamo sorpreso a tal novella orrenda
Si fuggì tosto a ricovrare appresso
All’altare di Giove edificiale,
E sul disegno istesso anch’altri andaro
A ricovrarsi in altri tempj anch’essi,
E Cassandra per ciò vi si condusse
Nel tempio di Minerva. I Greci avendo
Tutta la notte intera massacrati
Quanti colti ne avean, all’apparire
Del dì novello, a Troja orribil giorno,
Diero l’assalto alla magione, in dove
Elena stava, e ritrovar Deifèbo,
Che sposata l’avea, dopo che morto
Era Alessandro; a questi Menelao
Pria le orecchie tagliò, quindi le braccia,
E poi le nari, e dopo altri cruciati,
Che gli fe’ sconciamente sopportare
In varie parti del suo corpo, alfine
Il fe’ morir; e Neottolemo avendo
Niun rispetto all’età, o al regio grado,
Strappò Priamo dall’Ara, ove abbracciato
Sen stea colle due mani, e poi l’uccise,
Ed Ajace Oilèo dal sacro tempio
Di Minerva strappò viva Cassandra.
Cosi distrutti i cittadini, e Troja,
Consiglio si chiamò, per decretare
Il destino di quei, che rifuggiti
S’eran ne’ sacri tempj, e fu deciso,
Che si dessero a morte; era sì grande
II duol de’ Greci per l’avuta ingiuria,
E ‘1 desio d’annullar per tutto il nome
Di Troja, e de’ Trojani: e così presi
Quei, che la notte s’erano nascosti
Ne’ tempj delli Dei, e come agnelli
D’ essi strazio si fece, e si scannaro.
Indi giusta il costume della guerra
Fur saccheggiati i tempj, e quelle case,
Che mezz’arse dal foco eran rimaste;
Sempre badando per più dì, che alcuno
Non fuggisse de’ Barbari. Frattanto
Stabilirono un luogo, ove raccolto
Fosse l’oro, e l’argento, e quelle vesti
Sembrate preziose, e quanto in Troia
Di stimabile v’era: e sazj alfine
Del Trojan sangue i Greci, e al suolo equata
Col foco la città, diero ai soldati
La parte della preda in lor compenso,
E cominciando dalle donne prese,
E dai fanciulli al guerreggiar non attì,
Fu data Elena prima a Menelao,
Senzachè si gettasse in lei la sorte,
E a consiglio di Ulisse a Neottolemo
Polissena fu data, acciò l’offrisse
Vittima al padre sul di lui sepolcro,
Come Pirro eseguì. Toccò Cassandra
Al Duce Agamennòn, ch’era di lei
Innamorato, e mal potè frenare
Il desiderio suo: Etra, e Climene
Fu data a Demofonte, e l’altra a Acamo;
Era a Pirro anche Andromaca toccata
Co’ figli suoi m onor di un tanto Duce;
Ecuba alfin all’Itacense Ulisse.
E queste furò le matrone tutte
Prese in Trojà, e tra i Duci compartite;
Che agli altri poi toccò ciocchè la sorte
Pe’ meriti d’ognun, o di prigioni,
O di preda assegnolli. Intanto nacque
Non picciola contesa infra li Duci
Per causa del Palladio. Il pretendeva
Ajace Telamonio, e per mercede
Delle grand’opre sue, e per l’industria
A tutti usata: e tutti a comun voto
Per non offender l’animo di un uomo
Di cui sapean i gloriosi fatti,
E le vigilie, e li sofferti affanni,
Gliel concedono. Sol si oppone Ulisse,
E seco lui Diomede, e la ragione,
Per cui credean, che avessero più dritto
Sul Palladio preteso, era, che ad essi
Sortì rapirlo: Ajace rispondea,
Che non per opra loro, o per fatica,
Pericolo, o virtù quegli dal tempio
Era stato rapito; anzi al contrario,
Ch’Antenore l’avea di là involato
Per comune amicizia, indi in lor mano
Era da quel venuto; e pur Diomede
Per rispetto a un tal uom, di contrastarlo
Si rimase, ma Ulisse il più ostinato
Resisteva ad Ajace, e l’uno e l’altro
Contendendo pe’ meriti de’ fatti,
S’impegnava d’averlo. Agamennòne,
E Menelao sosteneano Ulisse,
Perchè poc’anzi aveva dalla morte
Elena liberata, allorchè Ajace,
Memore che una femmina tant’anni
Avea la Grecia a tanti mali esposta,
Commesso avea, che fosse uccisa; Ulisse
Per Menelao, che ancor Elena amava,
Avea co’ prieghi, e col discorso suo
Ottenuto, che senza alcuna offesa
Fosse data al marito. A quale oggetto
Come in giudizio i meriti d’entrambi
Fossero esaminati, e come intorno
Da vicine nazioni minacciati
Tenessero la guerra per le mani,
Senza discerner gli uomini gagliardi,
Senza considerar tante preclare
Gesta d’Ajace, e specialmente quella
Di menare il frumento dalla Tracia,
Quando maggior bisogno avea l’armata,
Danno il Palladio al contendente Ulisse;
E quei, che ricordavano le imprese
D’Ajace, a cui niun altro unqua preporre
Si dovesse credean, e quei, che Ulisse
Favorivano, allora in due partiti
Si divisero: Ajace intanto irato
Vinto dal duol di tanta ingiuria innanzi
A tutti protestò, ch’egli col sangue
Delli nimici suoi farìa vendetta;
Onde in sospetto Ulisse, e Agamennone,
E Menelao, si posero in cautela,
Notte, e giorno vegghiando attentamente:
Ma la notte seguita, ad una voce
Tutti maledicean entrambi i Duci,
Presso cui delle femmine l’amore
Si valutava a più, che l’opre egregie.
Al far del dì trovossi Ajace estinto,
E indagato in che modo, un ferro il petto
Trapassato gli avea: indi tra i Duci,
E l’esercito nacque un gran tumulto,
E una sedizion quasi levossi;
Poichè mal sopportando ancor la morte
Di Palamede in pace, e in guerra esperto
Per tradimento iniquamente ucciso,
Or allo stesso modo ancora Ajace
Avessero trafitto. Il Re temendo.
Che l’esercito passi alla violenza,
In buona guardia cogli amici chiusi
Se ne stavan ne’ loro padiglioni:
Neottolemo infrattanto una gran copia
Fatta venir di legna, ardevi Ajace,
E ripostevi l’ossa entro d’un’urna
In seno del Promontorio Retèo
Fe’ seppellirle, e quindi un gran sepolcro
Sacra in onor di un tanto capitano,
Il qual se morto si sarebbe innanti,
Che fosse stata presa, ed arsa Troja,
Certo, che li nimici avrieno avuto
Miglior speranza, e i Greci dubitato
Dell’esito felice. Intanto Ulisse,
Temendo dell’esercito, per mare
Fuggì nascostamente, e a Diomede
Il Palladio restò. Quegli partito,
Ecuba anteponendo la sua morte
Alla sua servitù, cominciò tosto
A maledir l’esercito de’ Greci,
Ed imprecargli ogni più infausto evento;
Onde mossi i soldati a rabbia, e sdegno
L’uccisero coi sassi, ed in Abido
Le diedero sepolcro, e l’appellaro
Cirasseno per l’empia iniqua lingua.
In quel tempo medesimo Cassandra
Ispirata dal DIO, molte disgrazie
Predice al sommo Duce Agamennòne,
Ch’egli dai suoi nel regno suo nascoste
Insidie troverebbe, e morte infine:
Che l’esercito suo infausto avrebbe
Alla Patria ritorno. A quest’oggetto
Antenore pregava i Greci tutti,
Che deposto il furor, e istando il tempo
Propizio al navigar, l’util comune
Fosse l’oggetto del di lor consiglio;
Ed in sua casa i capitani tutti
Menati a pranzo, a ciaschedun fe’ doni
Al di lor merto eguali. Allora i Greci
Persuadevano Enea, che seco loro
In Grecia andasse, ove cogli altri Duci
Il medesimo impero in regno avrebbe.
Pirro diè poi ad Eleno li figli
Del suo fratello Ettorre, ed ogni Duce
Tant’oro diegli, e tanto argento ancora
Quanto parve a ciascun. Tutto ciò fatto,
Per consiglio comun venne prescritto,
Che per d’Ajace l’esequie per tre giorni
Pubblicamente fossero da tutti
Celebrate, e le furo. Indi compite,
Tutt’i Re della Grecia al suo sepolcro
Tagliano i lor capelli, e li soldati
Maledicendo ognun Agamennòne,
E ‘1 fratel suo, li chiamano per biasmo
Non più figli d’Atreo, ma di Plistene;
E perchè astretti ad acchetar lo sdegno,
Il l’odio altrui colla di loro assenza,
Pregan, che fosse loro almen concesso
Di partirsi; e così dietro il consenso
Di tutti, e spinti a braccio, e discacciati
Anche dai Capitani essi li primi
Si furono a partir, d’Ajace i figli
Acontide di Glauca generato,
E da Tegmessa Euriste a Teucro dati;
Indi i Greci temendo, che l’inverno
S’avvicini, ed il mar rendasi poi
Difficile a solcar, traggon le navi
Dalla terra sull’onde, e ricolmate
Di quanto al navigar faccia mestieri,
Si parton carchi della ricca preda
Per tant’anni raccolta, ed acquistata.
Enea rimase in Troja, e non sì tosto
Ebbero sciolto da quel lido i Greci,
Che pregò quei di Dardano, e coloro,
I quai nella penisola vicina
Abitavano, acciò dassero a lui
Soccorso a discacciar da tutto il regno
Antenore, del che questi avvisato
E ritornar volendo a Troja, escluso
Restonne, e a ritrovar novello asilo
Costretto, si partì con quanto avea,
E nel mar Adriatico fermossi.
Molte barbare genti discacciate,
Ivi costrusse una Città chiamata
Coricere Milena; e nel paese
Saputo appen, che Antenore regnava,
Tutti quei, che campati eran la notte
Dall’eccidio Trojan, corrono a lui,
E in picciol tempo moltitudin grande
Se ne raccolse: inverso a lui l’amore
Tant’era de’ Trojani, e pel suo senno,
E per le sue virtù, ond’Enidèo
Re de’ Grebeni gli divenne amico.
Ho scritto queste cose io detto Gnosso
D’Idomenèo compagno, e in quello stile,
In quel modo di dir, che m’è riuscito
Con lettere africane a noi recate
Da Cadmo, e Danao; nè si maravigli
Alcun, se i Greci son tra lor discordi
Di lingua, ch’ancor noi nella medesima
Isola abbiam vario discorso e lingua.
Adunque tutto ciò, che nella guerra
Ai Barbari, ed ai Greci è succeduto,
Perchè presente io fui, e perchè parte
Re soffersi, ho qui scrivere voluto:
Ma d’Antenore poi, e del suo regno
Quello, che ho udito sol, quello v’ho scritto,
Ora convien, che del ritorno nostro
Alla Grecia facessi anche parola.