I libri


Testo

Ditti Cretese

La Rovina Di Troja
Libro III°

Seguia l’inverno, e pattuita tregua
Il combatter vietava. I Greci intanto
Con diligenza usavano dell’ozio,
Preparando ogni cosa, che alla guerra
Util saria. Innanzi allo steccato
Ogni duce i soldati ammaestrava
A combattere, e tutti eran divisi
In vari uficj; a fabricar chi l’aste
Di peso, e di misura in tutto eguali;
Chi alle saette s’avvezzava, e ai sassi.
Tra i sagittarj i più famosi Ulisse,
Era Teucro, Merione, e Menelao,
Nè dubitava alcun, che Filottete
Fosse il miglior, come colui, che avea
D’Ercole le saette, e in saettare
Nel bersaglio mirabile si fosse.
Al contrario i Trojani, ed i soldati
Condotti in ozio se ne stean tranquilli,
E senza tema di veruno inganno,
Or questi, or quelli se ne gian soventi
Ad offrir sacrifìcj al sacro Tempio
D’Apolline Timbrèo, senzachè il Greco
Desse al Trojan molestìa, o questo a quello.
In quei giorni s’udì, che d’Asia tutte
Le Città ribellate, avean di Priamo
L’amicizia negletta, e disprezzata,
Che a quei popoli tutti, i quali innanti
Solevano albergarli, eran caduti
In sospetto assai giusto in sull’esempio
D’Alessandro, ch’avea tradito il sacro
Dritto ospitale, e perchè ancor saputo
Avean de’ Greci le vittorie, e quanta
Rovina fosse alle Città venuta,
Che serbavan lor fede al Re Trojano;
E finalmente ancor perchè i suoi figli,
E ‘l suo regno odioso erasi reso.
Sacrificava un dì vicino a Troja
Ad Apollo Timbrèo Ecuba, e vago
Achille di veder tai cerimonie
Sen venne in compagnia di molti amici;
Da più matrone er’ Ecuba servita
Mogli de’ figli suoi, che parte seco
Givan per onorarla, ed altre poi
Per porgere a quel Dio voti, e preghiere:
Era assistita ancor Ecuba allora
Dalle Vergini figlie, e Polissena,
E Cassandra d’Apollo, e di Minerva
Sacerdotessa, che vestita andava
In barbarico modo, ed ornamenti
Insoliti, la qual sparse le chiome
Sulle spalle, faceva orazione;
Ma Polissena ministrava poi
Ciocch’era necessario al sacrificio.
Volto per caso Achille a Polissena
Lo sguardo, ne restò innamorato,
E l’incendio crescendo a dismisura
Senza che moderar ei lo potesse,
Saggio alle navi s’avvisò tornare:
Passati pochi dì, quella bellezza
Più gli crescea nel cor; Automedonte
Chiama, e palesa a lui tutto l’ardore,
Che il divora, e consuma, e alfin lo prega,
Che della fiamma sua vada legato
Ad Ettorre, perchè gli chiegga in moglie
La vergine adorata: Ettorre tosto
Di dargliela promise, e chiese in vece
Di potere de’ Greci rovinare
Tutto intero l’esercito; all’incontro
Scioglier la guerra prometteva Achille
Se Polissena a lui moglie si dasse.
Chiese Ettorre di poi, che di Plistene
Gli consegnasse i figli, e i due Ajaci,
Perché potesse a modo suo scannarli,
O che del maritaggio ei non prendeva
Alcuna parte. Udì mal pena Achille
La rea dimanda, che in furor ne venne,
E gridando giurò, che al primo incontro
Nella prima battaglia egli l’avrebbe
Di sua mano trafitto. Era pertanto
Dall’amore agitato, e mai provava
Pace, o conforto. Automedonte allora
Vedendolo ridotto a tal miseria,
E che l’ardor crescendo, egli allo spesso
Fuori del padiglion solo ne stava,
Temendo, che il furor fuori lo tragga
Di mente, e contro se, ovver de’ Regi
Qualche con attentasse, al caro amico
Patroclo, e al suo parente Ajace espone
E manifesta il suo nascosto amore,
Questi fingendo d’ignorare il tutto,
Sen stavano col Re. Per avventura
Achille ritornato alla sua mente,
Chiamati Agamennòne, e Menelao,
Il desiderio suo fa manifesto:
Quelli esortando a star di buona speme,
Che in breve possessor ne diverrebbe
Di ciocchè amava, e che con tanti preghi
Non aveva ottenuta, e facilmente
Lusingar sen potea, che de’ Trojani
Il fato si affrettava a lor rovina;
Che di Priamo, e de’ figli l’amicizia
Dell’Asia le città sprezzata avendo,
Spontaneamente a noi compagni, ed armi
Offrivano alla guerra; e non ostante
I nostri capitani avevan loro
Risposto, che d’ajuto alcun bisogno
Non sentivan, che a noi era bastante
L’armata nostra, e che gradita intanto
Era la loro generosa offerta;
E buona volontà. Si facea questo,
Perchè dell’altrui fè giova sovente
Di dubitar, per evitar gl’inganni.
Il pigro inverno avea scosse le piume
Dalle piogge, e dal gelo, e cominciava
Di primavera il bel ridente aspetto,
Allorchè i Greci impongono ai soldati
Di star pronti sull’armi, e dato il segno,
L’esercito dispongono sul piano;
Nè li Trojani si mostrar più lenti:
Ordinate dall’una, e l’altra parte
Le squadre rispettive, incontro vassi,
Ed al tirar d’un dardo avvicinati,
Confortando ciascuno i suoi, si vola
Alla pugna, al conflitto, avendo innanti
Posti i cavalli ad incontrarsi i primi.
La prima volta allora i Re Trojani,
E i Greci per combattere SU i carri
Montano, un carrettier ciascuno avendo,
Per guidare i cavalli: e innanzi a tutti
Dai cavalli, che tolti aveva a Reso
È tratto Diomede. In fronte ei l’asta
Tirò a Pichecmo Re delli Ciconi,
Il ferì, e l’uccise, e dopo uccise
Tutti quegli altri, che si fero intorno
Al morto Re, e tutti quei, che ardire
Avean d’opporsi di Diomede al braccio,
Calpestandoli poi sotto il suo carro.
Idomenèo, Merion tolto a cocchiere,
Fe’ traboccar dal carro il Re de’ Traci
Agamante, e al cader pronto gli corse
Addosso colla spada, e lo trafisse.
Altrove Ettorre combattea da forte;
E udito, che li suoi eran nel mezzo
Malconci dalli Greci, accorse tosto
Seco Glauco menando, e ancor Deifèbo,
Non che Polidamante; ed è pur certo
Ch’ivi li nostri Re romper potuto
Avriano l’oste, se il venir d’Ettorre
Non l’avesse vietato: egli li suoi,
Che fuggian sostenuti, e incoraggiti
Fe’ fronte ai Greci, e dalll’uccider furo
Non sol distolti, ma battuti ancora;
E sparsa voce, che nel centro ardea
Ostinato il conflitto, ognun de’ Duci
Lascia il sito, che avera, ed ivi accorte:
D’ambe le parti stringonsi le squadre,
E si comincia piucchè mai, e altrove
Sanguinosa battaglia, ed ostinata.
Ettore visto aver molti de’ suoi,
Che ‘l circondavan dalle spalle, e ai fianchi,
Chiama ciascun per nome ad alta voce,
E li conforta, gli anima, gl’incita
A combatter da bravi, e con coraggio,
Ed egli tra le squadre de’ nimici
Penetrando, Diore, e Polisseno,
Ed altri uccide, e ne ferisce assai;
Del che s’accorse Achille, e desioso
Di soccorrere i suoi, ed a memoria
Richiamando, che a lui già poco innanti
Si osò negare Polissena in moglie,
Gli corse incontro, ed incontrato avendo
Filemon, che era Re de’ Paflagoni,
Che l’andar gli vietava, a terra il pose;
Consanguineo di Priamo era costui
Della stirpe d’Agenore per mezzo
D’Amalisone, che fu presa in moglie
Da Dardano. Vedendo allora Ettorre
Che con nimica squadra incontro a lui
Venisse Achille, e la cagion sapendo
Dell’odio, che il muovea, non ebbe ardire
D’aspettarlo, e resistere al furore
Di tant’uomo, e fuggì colla sua squadra,
Inseguendolo Achille, in quanto a lui
Il permettea la folla de’ nemici:
Gli uccise intanto il carrettier, ch’Ettorre,
Lasciato il carro, avea fuggito a piedi;
Onde adirato, che il nimico avesse
Da sue mani scampato, incrudelissi
Maggiormente, e di quei fece un macello,
Che intorno al carro gli veniano innanti,
Là calpestando, e percuotendo, e molti
Uccidendo, e fugando, e lo spavento
Facea tutti fuggir: Eleno allora
Vedendo delli suoi cotanto scempio,
Cercò nascostamente ove potesse
Ferirlo, e di lontan una saetta
Gli trasse, e lo colpì nella man destra,
Onde quel bravo, al cui venire Ettorre
Spaventato fuggì, e che in quel giorno
Tanti avea pesti Capitani, e uccisi,
Ferito di nascosto, al padiglione
Fu costretto tornar, e si rimase
Dal combatter per ciò quella giornata.
Agamennòne intanto, e li due Ajaci
Dopo uccisi molt’uomini del volgo,
Di Priamo avendo più figliuoli innanti
Ritrovati, nissun ne scappò vivo:
Uccise il Re Arsaco, e Diopète,
Archemaco, Laudàco, e Filenòre:
Ajace Oilèo, e quel di Telamone
Dier morte a Mulio, a Doriclo, e Astimène
E a Ippodamante. In altro luogo poi
Patroclo, e Sarpedon stando all’incontro
Ne’ corni opposti dell’armata, e niuno
Stando de’ suoi parenti, a corpo, a corpo
Disfidati a combattere, di squadra
Usciro, e tratti di lontano i dardi,
Nè l’un, nè altro fu ferito; allora
Scesi dai carri, colle spade ignudi
Si vanno incontro, e dopo varj colpi,
Che l’un l’altro tiraronsi, nissuno
Restò ferito, e come già del giorno
Gran parte era trascorsa, in se raccolto,
E ristretto nell’armi, e cautamente
Patroclo avvicinato al suo nimico,
Indi abbracciollo, e colla man di dietro
Il ferì nel ginocchio, ove li nervi
Avendogli tagliato, a terra cadde
Indebolito il corpo, e sì l’uccise.
Ciò veduto i Trojani, a lui d’appresso
Di gemito levaro un alto grido,
Perchè la morte di colui costava
Pubblico danno alla lor patria, e lutto,
Onde lasciati gli ordini, e le file,
Si volser tutti a Patroclo d’incontro,
Ma Patroclo veduta de’ nimici
Tutta la squadra di venirgli addosso,
Tratta dal corpo del nimico estinto
La calda spada, coraggiosamente
Si difende, e Deifèbo in una coscia
Ferisce, e lo costringe a uscir di zuffa.
Indi gli uccise Corcazion fratello;
E in quel momento sopraggiunto Ajace,
Furo tutti cacciati: Ettorre intanto
Udito ciocch’era accaduto, accorse,
E rimettendo in ordine li suoi,
Riprese i capitani, e ricondusse
I fuggitivi alla battaglia, e fuvvi
Con coraggio ripreso allor l’attacco
Ed i più egregi duci in l’una, e l’altra
Parte vi essendo, ed animati entrambi
Gli eserciti, si diè qui una battaglia
Ostinata, e crudel, fuggendo or gli uni,
Ora inclinando gli altri, e ognuno avendo
Pronto il soccorso, ove il volea il bisogno.
Miete morte egualmente e gli uni, e gli altri,
Nè di guerra si cangia unqua l’aspetto,
Che dubbia pende la vittoria ovunque,
Ed incerto timor gli animi stringe.
Ma del giorno trascorsa era gran parte,
E al combattere intenti, eran già stanchi
Tutti i soldati, e dalla fame ancora
Indeboliti, e pressi, e in di lor grazia
Venne la notte a separarli allora;
E ritirati nelle navi i Greci,
Nelle mura i Trojani, ivi si pianse
Assai d’intorno a Sarpedòne estinto,
E de’ gemiti lor l’aria echeggiare
Facean le donne, che giammai tal duolo
Provato avean per gli figliuoli istessi
Di Priamo uccisi; avendo ognun gran speme
Solo in quell’uom, onde quel morto, ognuno
Temea la patria esser perduta ancora.
Giunti i Greci ne’ loro alloggiamenti,
Vanno prima a veder che sia d’Achille,
E gli cercan se mal va la ferita;
Ma vedendolo lieto, e di dolore
Sgombro, sen rallegraro, e i fatti egregi
Di Patroclo narrare a ciascun piacque,
Indi gli altri feriti a visitare,
Giusta l’ordine loro, ognuno andiede,
E servito al dover così, di poi
Si ritirò nel proprio padiglione:
Non intermise intanto d’elevare
Con somme lodi Achille i fatti illustri
Di Patroclo suo amico: ei l’ammoniva,
Che in prosieguo dovea risovvenirsi
Di tai fatti, perchè con più coraggio
Assalisse i nimici, oggi il dovere
Di non smentire avendo il nobil nome,
Che acquistato s’avea, e sì la notte
Si passò dalli Greci, e dai Trojani.
Il dì seguente fu d’ambe le parti
Speso a raccorre, e a seppellire i morti;
Indi passati alquanti giorni, e tutti
Risanati i feriti, ai Greci piacque
Prepararsi, ed uscire a nuova guerra,
I barbari secondo il lor costume
Senz’ordine, e confusi, e con inganno
Nascostamente usciti innanzi tempo
Portan battaglia ai Greci inermi, e sparsi
Ovunque, e colle lor tumultuose
Grida turbaro, e ne ammazzaro molti
De’ nostri, infra de’ quali or si compiange
Archesilào, Boezio, e Schedio ancora.
Oltre delli due principi Crisei,
Molti feriti furo, e tra di questi
Si conta Mege, Agopenore d’Arcadia;
Nel disordine Patroclo volendo
Della battaglia vincer la fortuna,
Conforta i suoi, e contro de’ nimici
Vola precipitoso, e dalla lancia
È ferito d’Euforbio, e non reggendo
Dopo il colpo si cadde, e incontinente
Corse Ettorre, e ‘1 percosse, e con ferite
Replicate l’oppresse, e tratto il corpo
Dal conflitto, lo fece in varj modi
Schernire, ed oltraggiare. Ajace avendo
Udito questo, affretta il corso, e vieta
Coll’asta in pugno, che venisse tolto
Il cadaver da Ettor. Infraditanto
Viene dall’altro Ajace, e Menelao
Euforbio attorniato, e come autore
Della morte di Patroclo vien messo
A morte anch’egli: e quindi sopraggiunta
La notte, si cessò dalla battaglia,
Molti de’ nostri con vergogna uccisi
In sul campo restando, e trucidati:
E ridotti gli eserciti in sicuro,
Tutt’i Re andaro a ritrovare Achille,
Che afflitto un mar di lagrime versava
Sul cadaver del suo diletto amico;
Tanto, che seco ognun piange, e si accora,
E Ajace istesso non potè dal pianto
Astener le pupille, e non la morte
Tanto increscea, che le ferite atroci
Nelle parti pudenti, e vergognose;
Esempio nuovo, e che alli Greci allora
La prima volta si vedea avvenuto:
Con molti prieghi adunque i Re levaro
Di terra Achille, e ‘1 consolare alquanto;
Indi lavato replicate volte
II cadavere, e sparso a lui di sopra
Fu un aureo panno, e a ricoprirlo adatto,
Per nasconder così quelle ferite,
Di cui tanta s’avea pena, e spiacere:
Indi comanda Achille, acciò si faccia
Buona guardia nel campo, affinchè mentre
La pompa funeral si celebrava,
II nimico seguendo il suo costume,
Ad assalir non ci venisse inermi;
E in varj luoghi varj fuochi accesi
Tutta la notte si vegghiò sull’armi.
Al far del di furo spediti all’Ida
Cinque principi Greci incaricati
A tagliare la selva, ove dovesse
Arder Patroclo al rogo, e andò Jalmeno,
Ascalafo, ed Epèo con Merione,
Che seguiro gli Ajaci: Ulisse poi
E Diomede il luogo, ove del rogo
La macchina dovea esser levata
Scelsero in mezzo, e fu nel suo intervallo
Lungo cinqu’aste, ed altrettanto largo,
E portate le legna, e ‘l rogo estolto,
Fu tantosto il cadavere recato
Di ricche spoglie ricoperto, e d’ altri
Ornamenti dell’uso, e come piacque
A Ippodamia, e Diomedèa, che tanto
Patroclo amava, e alfin arse, e finio.
Alquanti giorni poi, restaurati
I Duci dal vegghiar per tante notti,
Una mattina fuor dello steccato
Condussero l’esercito; aspettando,
Che i barbari scendessero alla pugna,
Ma divisando quei dalle lor mura,
Ch’erano i Greci apparecchiati, e pronti,
Se ne stiero tranquilli. Al sol cadente
Si ritiraro i nostri. Il dì seguente
Solleciti i nimici appena in cielo
Espero conducea la prima luce,
Credendoci trovar disordinati,
Corron’ audacemente dalle porte
Allo steccato, e affollanti d’intorno,
Ed una nube di frequenti dardi
Ci fan piovere addosso. I nostri o poco,
O nissun danno risentir ne ponno,
Dacchè stavano attenti ad ischivare
Solo i lor colpi, ed inclinando il giorno,
Ch’era così nell’azion passato,
E stanchi alfin di grandinarci sopra
Un inutile turbine di dardi,
Mentre risenton di lor opra vana
Tutto il peso, ed il danno; indeboliti
Senza che se n’accorgano, li nostri
Escon veloci dalla parte opposta,
Ed irrompendo nel sinistro lato,
Gl’incalzano, e li voltano alla fuga,
Indi l’assalgon dal contrario fianco,
E messi in mezzo i barbari a due lati,
Volgon le spalle vergognosamente,
E incalzati, battuti, ed inseguiti
Soffron dai nostri gran rovina, e danno.
Tra i più malconci furo Asio figliuolo
D’Irtaco con Filèo, e Ippoirèo,
Irato, ed Asio, che regnava in Sesto:
E Diomede quel di vivi ne prese
Dodici, e Ajace sol fino a quaranta,
E dei figli di Priamo prigionieri
Fur presi Piso, e ‘1 giovanetto Evandro.
Nel conflitto però mori de’ Greci
Cenèo il Re de’ Sciti, e Idomenèo
Nostro duce, e signor fu sol ferito:
Ma dopo che i Trojani entro le mura
Si rinserraro, e chiusero le porte,
Spogliammo d’arme i corpi de’ nimici,
Quindi al fiume portati in sen dell’onde
Vi fur gittati, e ciò per l’insolenza
Contr’a Patroclo usata i giorni innanti;
Tutt’i prigioni poi, come fur presi
Nell’ordin loro presentati innanzi
Furo ad Achille, il qual con molto vino
La favilla smorzata, avea gli avanzi
Di Patroclo raccolti in sen d’un’urna,
Disposto di menarle alla sua Patria,
S’indi vivo partisse, o se nemica
La fortuna l’avesse ivi poi colto,
Perchè col caro amico insieme fosse
Seppellito, e così fece sul rogo
Condurre i prigionieri, e uniti a questi
Di Priamo i figli, è là dalla favilla
Lungi non molto fe’ tutti scannarli:
Avvisato così il caro amico
L’ombra placar; nè pur di ciò contento,
Diede i figli del Re per pasto ai cani,
Giurando di dormir sul nudo suolo
Finchè l’autor del pianto suo vivesse.
Non molto dopo seppero li Greci,
Ch’Ettore insiem con pochi suoi compagni
Andava a riscontrar Pantasilèa,
D’Amazzone Regina, Ella venìa,
Non so se per desìo di guerreggiare,
O per prezzo portasse ajuto a Troja.
Questa gente guerriera è dai vicini
Per fiera, ed indomabile tenuta,
Nell’arme troppo quelle donne essendo
Destre, e alla mischia, ed al fuggir veloce
Achille dunque a pochi suoi compagni
Unito si recò su quel sentiero,
Che tenère dovea la schiera ostile,
E per la quale si tenea sicura:
Ei si pose in agguato, e quando Ettorre
Già cominciava a valicare il fiume,
Fugli addosso con tutt’i suoi compagni,
Ed inscio dell’inganno, all’improviso
Vittima cadde del furor d’Achille;
Indi di Priamo un altro figlio ei prende,
Le mani gli recide, e al re l’invia,
Infausto messo del sinistro evento.
Dopo che Achille il suo nemico uccise,
E in memoria del duol fatto feroce,
D’arme spogliollo, e per li piè legato
L’attaccò dietro al suo veloce carro,
E sopra asceso, a Automedonte impose
Di rallentare ai suoi destrier le briglie,
E a tutta fuga trascorrendo il campo,
Si trasse dietro trascinato Ettorre,
Novella in vero, e miserabil specie
D’inusitata, e dispiacevol pena.
Come i Trojani poi dalle lor mura
Distinsero d’ Ettorre ingenuamente
L’arme, le insegne, e le ben note spoglie,
Che per ordin d’Achille agli occhi innanti
Furo esposte, e portate; e come giunse
In città l’altro, a cui erano state
Recise ambe le mani, indizio certo
Dell’evento crudel, qualunque dubbio
Dall’anima sgombrò: E tanto pianto
In la città levossi, ed urli tanti,
Che avrian gli uccelli spaventati a terra
Caduti a quel gridar lugubre, e mesto;
Maggiormente perchè da fuori i nostri
Altre grida, altre voci d’allegria
Alzarono, perchè più li Trojani,
Dalla nostra allegria fossero afflitti.
Crescon gli urli di doglia, e la cittate
Chiusa dovunque un solo aspetto esprime,
Ch’è quel del lutto; e l’abito regale
In lugubre si cangia, ed in funebre.
Siegue ai pianti confusi un gran silenzio,
Nè si sa la cagion: Temevan tutti,
Ch’estinto Ettorre, ogni di lor speranza
Erasi già perduta, e che la notte
Avrian li Greci la città assalita,
Ettor mancando, che li fea sicuri:
Altri temean, ch’Achille al suo partito
Pantasilea si avesse, e che l’ajuto
Di quella schiera or mancherebbe a Troia;
E temevano alfin tutto dai Greci,
Poichè perduto avean forza, e potere,
E speranza in Ettorre or dato a morte,
Il quale solo aveva innanzi a tutti
Della loro città contro i migliaj
De’ nemici, ed incontro ai capitani
De’ Greci sempre combattendo avuta
E vittoria, e fortuna; essendo ei solo
Il più gagliardo, e ‘l più felice insieme,
E che al valore avea consiglio eguale.
Sen ritorna alle navi intanto Achille,
E d’Ettorre il cadavere mostrato,
Mitiga il duol, che ai Greci avea prodotto
Di Patroclo la morte, e vi succede
Somma allegria, ed in onor di lui,
Che avea tant’oste, e virilmente ucciso,
Piace a ciascun di celebrarsi i giuochi
Soliti in tali avvenimenti; invano
Potendosi temer, che li nimici
Venghino a disturbarli, e nulla ostante,
Si volle, che quei popoli, li quali
Non avrebbero ai giuochi alcuna parte,
Stassero in armi, e apparecchiati all’uopo,
Se mai potesse, ancorchè l’oste è afflitto,
Colle solite insidie il nostro campo
Assalir d’improvviso, e molestarci.
Tutto fu già disposto, e volle Achille,
Che ai vincitori di quei giucchi dati
Fosser gran doni, e nulla già mancando,
Furo invitati i Re tutti a sedere;
Egli nel mezzo, in alto seggio stando,
Fur le quadrighe a gareggiar le prime;
Eumèlo riportò vittoria, e premio;
Nelle bighe Diomede, e dopo lui
Fu Menelao il vincitor secondo,
Merione, ed Ulisse in saettare
Peritissimi, e bravi, un filo steso,
Che di due navi gli alberi ligasse,
Ed in mezzo sospesa una colomba,
Si fe’ invito vibrar colle saette
In quel bersaglio, e quando tutti invano
Ebbero saettato, essi alla prova
Colpirono nel segno, e somme lodi
Riportaro da tutti: Allor promise
Filottete ferir, non la Colomba,
Ch’era assai facil cosa all’areo suo,
Ma il filo istesso, e con stupore udito
Questo dai Re, ciocchè promesso avea
Fedelmente eseguì; che rotto il filo,
Del popol tutto innanzi agli occhi cadde
A terra la colomba. Ebbero i doni
Ulisse, e Merion, ma Filottete
Il doppio riportò di gloria, e doni.
Indi nel lungo corso il premio ottenne
Aiace d’Oilèo, poi Polipèto;
Macaon ne’ due campi, e poi nell’uno
Euripilo: A saltar fu Tepolèmo
Vittorioso, ed in tirar la pietra
Antiloco: Nissun poi della lotta
I premi riportò, perciocchè Ajace
Prese Ulisse a traverso, ed ai suoi piedi
Cadendo vi si avvolse, onde impedita
Ajace cadde a terra; Al giuoco poi
De’ cesti, o sian, le mazze, onde sospese
Son le palle di piombo ai lunghi cuoj
E negli altri di mano Ajace ottenne
Premio, e vittoria: Poi tutti prevalse
Nella corsa, e nell’arme il Re Diomede.
Terminati li giuochi, e dati a tutti
I vincitori i premj, Achille diede
Anche ad Agamennon dono decente
Al suo rango, al suo merto, e dopo questo
A Nestore, ed il terzo a Idomenèo;
A Podalirio alfin, e a Macaone,
Indi agli altri, e a ciascun nell’ordin loro,
E secondo lor stato, e finalmente
Ai compagni di quei, che nella guerra.
Per la causa comun erano morti,
Lor commettendo, che alla Patria un giorno
Ritornati, ai parenti, ed ai congiunti
Degli estinti dovessero portarli.
Sì dato fine ai giuochi, e dispensati
I premj, avvicinandosi la sera,
Al proprio padiglion ciascun ritorna.
All’apparir del dì, Priamo, deposta
La clamide reale, e gli ornamenti,
Che convengono a un Re, e ricoperta
D’una veste di duol, le mani avendo
In atto supplichevole disposte
Venne ad Achille. E veramente degno
Er’egli di pietà, come più degna
Er’Andromaca ancor, che lo seguìa,
Che sconcia, scapigliata, e per la mano
Astianatte portando, il qual Scamandro
È d’altri detto, e Laodamante i suoi
Piccioli figli, i prieghi, ed i lor pianti
Giusti rendean. Il Re debole, afflitto
La man di Polissena in sulle spalle
Poggiata camminava, e appresso a lui
Seguiano i carri, che d’oro, e d’argento,
Di preziose vesti eran ripieni.
A spettacolo tal di maraviglia,
E di dolore insiem stavano intenti
Dalle mura i Trojani. I Re di Grecia,
Priamo vedute in quel misero stato,
Tutti fur presi da stupor non lieve,
E vaghi d’ascoltar, si tacque ognuno,
Per saper cosa il mena, e per rispetto
Tutt’incontro gli vanno: E Priamo allora
Vedutili venir, cadde boccone,
Se di polve spargendo, e di sozzure;
Indi pregolli, che di sue disgrazie
Se avevano pietà, uniti ai suoi
Avessero lor prieghi appresso Achille,
A cui veniva il suo cammin diretto.
Nestore agli anni suoi, al suo felice
Stato transatto ebbe riguardo, ed ebbe
Pietà di lui, e gli promise andare.
Ulisse ricordandosi di poi
Ciocchè contro di lui, e de’ legati
Aveva detto in Troja, allorchè andaro,
Pria, che la guerra incominciata fosse,
Molte gli disse ingiurie, e villanie.
Seppe Achille il suo arrivo, e Automedonte
Incaricò, per introdurlo, avendo
L’urna coll’ossa del suo amico in seno:
Entrati dunque i nostri capitani
Col Re di Troja, abbracciò colle sue mani
Questi le sue ginocchia, e poi gli disse:
Tu no, non sei di questa mia disgrazia
Achille la cagion, ma qualche Dio,
Che a questi estremi di rovina, e danno
Ha me condotto, e che da tante morti
De’ miei figli ha voluto, acciò la mia
Vecchiaja fosse travagliata, e fatta
Della pietate altrui degno soggetto.
Ah questi figli miei per la di loro
Giovinezza sfogando i loro affetti,
Comunque loro sia piaciuto, e troppo
Fidandosi del regno, hanno apprestato
Ad essi, e a me questa sventura estrema,
Me disprezzando perchè vecchio, e i miei
Consigli; che se mai colla mia morte
Gli altri fian cauti, e s’asterranno poi
Da tali scelleragini, e ti piace
Me di vita privar, eccomi pronto,
Io m’offerisco a morte, e in questo modo
Me leverai dalle miserie mie,
De’ quali oggetto miserabil fatto
Spettacolo infelice alli mortali
Di debolezza, e di sciagure or sono:
Sì, che a morte son pronto, e apparecchiato,
Nè la temo, o ricuso, e se prigione
Anche mi vuoi, prigion anche terrommi,
Che questo stato non mi fia spiacente,
Non essendomi nulla oggi rimasto
Di mia felicità, di mia grandezza;
Poichè morto il mio Ettorre, il regno mio
Più non regge, è caduto: Ha già la Grecia,
E i malvagi consigli delli miei
Sparso il sangue de’ figli, e me punito.
Abbi pietà di mia cadente etate,
E memore de’ Dei fatti pietoso;
Ed a questi barbari sventurati,
Se l’anima non puoi, concedi almeno
Del genitore il corpo; alla tua mente
Chiama le cure, i pensieri, e le vigilie
Del Padre tuo per tua salvezza, e vita,
E i Dei ti rendan poi diuturna, e lunga
Vecchiaja dalla mia assai diversa,
E più felice: E in dir tali parole
Interrotte dal pianto, e dai singulti,
A poco, a poco gli mancò la forza,
La voce, e la memoria, ed un sì grande
Spettacolo commosse ogn’uom presente.
Andromaca di poi pose alli piedi
D’Achille i figli suoi, e lo pregava
Men colla voce, che col pianto suo,
Acciò le concedesse almen vedere
Il cadaver d’Ettorre. In questo mentre
Mal potendo soffrir sì commovente
Tragica vista, Nestore, e Fenice
Priamo levaro, e che non disperasse
Della bontà d’Achille, il confortaro:
Allora il Re tornato al suo vigore
E ‘1 suo spirto ripreso, inginocchiossi,
E stracciandosi il capo, e la canuta
Chioma, disse ad Achille: ov’è la tua,
Ov’è de’ Greci la natia bontate?
Forse l’avete sol per me perduta?
E tutti essendo a questo dir commossi,
E dall’affanno suo, rispose Achille.
Tu da principio castigar dovevi
Delle lor scelleraggini i tuoi figli,
Perchè non fossi un dì per compiacenza
Complice di lor colpe; e tu non eri
Dieci anni prima così vecchio, e tanto
Debole, che potevano sprezzarti.
Perchè non moderar gli animi loro
Avidi assai di posseder l’altrui?
Che non sol d’una Donna innamorati,
Ma di Pelope ancora, e ‘1 vecchio Atreo
Gli piacquero i tesori, e le ricchezze,
Calpestando il dovere e dell’onore
Le sacre leggi, e la giustizia istessa,
Ond’era giusto, che di tal delitto
L’ umanità sen vendicasse offesa.
Che i Greci poi avean sempre seguito
Della guerra le leggi, ed il costume
Agli antenati sacro, e i corpi estinti
De’ nimici rendeano agli onori
Del sepolcro; e ch’Ettorre avea violato
Solo sì sante leggi, oltrepassando
Delle genti il lodevole prescritto,
Poichè volea di Patroclo rapire
II cadavere a fin di sottoporlo
Ad ischerni, ed ingiurie inusitate;
Enormità, che meritar dovea
Tutto il rigor d’una vendetta atroce,
Affinchè i Greci, e 1’altre genti tutte
Memori un dì del singolar castigo
Che s’infligge a sì barbara condotta
D’infierire ne’ morti, avesser sempre
Cogli estinti l’uman costume usato:
Che i Greci poi, lasciati i propri figli
Lungi dalle lor case, e del di loro
Sangue, e di quello de’ nimici intrisi
Fra tanti rischi dell’assidua guerra
Tal ragion di milizia disumana
Non sapevan soffrir per una donna
Tanto sleal, nè per lo suo marito:
Ma ch’eran soli di conoscer vaghi,
S’essi, o i Barbari avean ragion d’imporre
Leggi alla terra, e di tenere Impero
Sul resto delle genti; e per lo ratto
D’una lor donna una ragion di guerra
Giusta trovata, eran venuti a Troja;
Perciocchè quanto lor piacea l’altrui
Rapire, e quanto avean di ciò contento
Tanto ai Greci la perdita spiacea:
Nè per ciò immune dal castigo andranne
Elena un dì; che presa, e rovesciata
Troja, sarebbe più di tutti ancora
Ella del fallo suo l’empia punita;
E ch’io dalla mia Patria, e dal mio padre
Stando lontan, ho il caro amico mio,
Dolce sollievo nelle mie tristezze,
Nella mia solitudine, perduto.
Indi Achille coi Principi di Grecia,
Consigliandosi intorno a ciò dovesse
Fare in quel caso, ritrovò, che tutti
Eran d’un sentimento, e d’un parere,
Che di Priamo accettati i doni, avesse
Reso il corpo d’Ettorre; il che conchiuso,
Al proprio padiglion ciascun ritorna.
Ed entrando nel suo Achille, incontro
Polissena gli va, ed a’ suoi piedi
Si trascina la bella, e nel suo pianto
Immersa prega, che d’Ettorre il corpo
Al vecchio padre suo venghi concesso,
E che sè prenda in servitù. Fu tanto
Commovente per lui questa veduta,
Che benchè per la morte dell’amico
Fosse di Priamo, e delli figli suoi
Implacabil nemico, invano al pianto
Potè dagli occhi suoi vietar l’uscita,
E porgendo la mano a Polissena,
Da terra la rizzò, indi commise
A Fenice, che il Re così dolente
Avesse confortato, e ‘l vecchio afflitto
Affirmava, che mai da tanto affanno,
E da miseria tal si riverrebbe.
Achille disse allor, che al suo desia
Di rendergli d’Ettorre il corpo estinto
Non pria si piegherebbe, che cangiate
Quelle vesti di duolo in altre liete
Seco seduto a comun mensa avesse.
Temendo il Re, che ricusando, avrebbe
Del suo venir tutto perduto il frutto,
Si condiscese, e l’abito cangiato,
Egli, e tutti color, che seco lui
Eran venuti, a tavola invitati
Furo d’Achille: Fu lauta la mensa,
‘Nè turbata dal duol; verso il suo fine
Al vecchio Re così di nuovo Achille,
Dimmi, o Priamo, qual sia l’alta cagione,
Onde ogni dì scemando voi di forze,
E crescendo ogni di vostra rovina,
E le disgrazie vostre, ancor vogliate
Elena ritener? Perchè piuttosto
L’augurio infausto di vicina peste
Non cacciarne da Troja? È a voi ben noto
Ch’ella ha tradita la Sua Patria, e noi
E ciocchè più tremendo, i di lei santi
Fratelli, i quali hanno in orrore avuto
Giurar con noi per la presente guerra,
Perchè non ritornasse alla lor Patria
Colei, che con spiacere udivan viva,
Tanto sua scelleraggine gli accora,
Perché all’entrar, che fe’ le vostre porte,
Ove recava la comun sventura,
Non la cacciaste, e la spigneste fuora,
Esecrandola ad alta, irata voce?
Or che pensan quei vecchi, i cui figliuoli
Mancan di giorno in giorno, e nel conflitto
Pagan di lor follia la giusta pena?
Non capiscono ancor, ch’ella è cagione
Delle perdite lor? Nè in Troja alcuno
Evvi, cui stia giudizio in mente, il quale
La sua patria cadente, e ‘1 comun danno
Col di lei sangue emendi? Io per la tua
Età, pe’ preghi tuoi, e di costoro
Ti renderò del tuo figliuolo il corpo,
Nè mai farò, ch’io ancor colpevol sia
Del fallo istesso, che al nimico incolpo.
Priamo di nuovo ritornato al pianto,
Signore, ei disse, le disgrazie umane
Iddio solo conosce; il bene, e il male
Libra egli solo, e quanto avvien sull’uomo;
E finchè fia concesso all’uom menare
Felice vita, per violenza alcuna,
O da nimico esser non puole offeso;
E ch’esso finchè avea cinquanta figli,
Era da tutt’i Re detto beato,
E che l’era in effetti, e ‘1 dì natale
Non avea d’Alessandro egli potuto
Schivar, come predetto aveangli i Dei;
Perciocchè essendo gravida sua moglie,
Vide in sogno, che a dar venia alla luce
Una fiaccola accesa, il di cui foco
Arso pria 1’Ida, e i tempi delli Numi
Mettea in cenere Troja, e sol le case
D’Antenore, e d’Anchise eran salvate:
E fatto interpretar dagl’indovini
Questo sogno fatal, disse ciascuno,
Che il figliuol, che nascea, seco recava
La pubblica rovina, e che dovesse
Farsi uccidere; allor Ecuba presa
Da materna pietà, finse sua morte,
Ma il fè nascostamente in su dell’Ida,
Dai pastori nudrire; indi cresciuto
Non soffers’io di poi, che fosse morto,
Mal convenendo al mia paterno affetto
Sì fiera crudeltà; anche a motivo
Che notevol bellezza avea sortito.
Indi presa per moglie Enone, in mente
Gli venne di cercar nuovi paesi,
E di viaggiar per gli lontani Regni,
E fu allor, che rapì Elena vostra,
Di grazioso aspetto, e dolci modi,
Che per fatalità. d’ignoto nume
Seppe a tutti piacere, onde nissuno
Volle, che fosse mai resa. alli Greci,
Fuorchè Antenore solo, il qual costante
Fu nel parer di rendersi alli suoi,
Per cui diseredò Glauco suo figlio
D’Alessandro compagno in quel viaggio,
E ch’andando a rovina oggi il suo Regno,

Egl’intrepido al fin si avvicinava
Della sua vita, il Regno, ed il governo
Nulla standogli più nell’alma, e solo
D’Ecuba, e delle figlie al suo dolente
Petto fea guerra il misero pensiere:
Che rovinata Troja, esse menate
Sarebbero prigioni: e quì si tacque,
E comandò, che quanto avea recato
Per ricomprar del suo figliuolo il corpo
Si spiegasse d’Achille innanzi agli occhi;
E preso Achille quel che più gli piacque
D’oro, d’argento, e preziose vesti,
Il rimanente poi fatto raccorre,
Con Polissena, e ‘l corpo del suo figlio
Fece rendere al vecchio, il qual per grata
Ricompensa pregò, che ritenuta
Si avesse Polissena. Al che rispose
Il giovane modesto, e costumato,
Che in altro luogo, e tempo convenia
Questo trattar, ma che decente allora
Era, che ritornasse insiem col padre.
E così Priamo, del suo figlio avuto
II cadavere, insiem con tutti quelli,
Che seguìto l’avean, sul carro ascese,
E nella sua città fece ritorno.