Se alla ragion, se alla giustizia umana,
Se al dritto delle genti, ed agli Dei,
Che regnano dovunque, avria rispetto
Paris avuto, o Principi trojani;
Né avrei Sparta lasciata, e del mio regno
Le gravi cure, e la diletta figlia,
Per venir qui legato, in compagnia
Di questi, ch’ ha la Grecia ai voi spediti;
Né avrei di questa mia orazione
Bisogno a intrattenervi, e né la Grecia
Di tante armate, e d’ogni dove accolte ;
Che nella nostra patria ora staremmo
Tranquilli, e voi d’ogni timore esenti,
E d’ogni rischio di vicina guerra :
Ma perchè piacque a Paride sentire
Gl’impulsi più d’un appetito effrene,
Ch’ ubbidir di ragione al sacro impero,
Ci ha qui la Grecia offesa a voi spediti;
Non per recarvi un’ altra ingiuria eguale,
Ma per riaver, se voi cel concedete,
Le nostre donne, ed i tesor rapiti:
E ch’ io non mento, a voi lice salire
Su vostre mura, e rimirar da lungi
Gli eserciti de’ Greci, e gli apparecchi
Dell’imminente guerra, a cui vi espone
Una vostra ripulsa: e benchè a noi
Ragione assiste il cominciar dall’arme,
Pur le parole preferite, abbiamo
Il dover consultato, e non lo sdegno;
E benchè pronto ognun fosse alla zuffa,
Tuttavia noi speriam, che la ragione
Voi consultando, a noi rendiate il nostro,
Perchè partir ce ne possiamo in pace,
Voi lasciando tranquilli in vostre case:
Chè se vostro destin vi accieca a segno,
Che il nostro ritener meglio vi piaccia,
Dura necessità volare all’armi
Ci farà tosto; al che venir da prima
Nostro voler non fu, ma sol qualora
La nostra mission priva d’effetto
Vedranno i nostri duci. È nelle vostre
Mani la vostra sorte , e della patria.
Pende da voi il suo destin, se mai
Di Paride volete il cieco amore
Al comun bene preferire, ovvero
D’Elena liberarvi, e della guerra.
Noi finor delle ingiurie a noi recate
Dall’Alessandro vostro abbiam soltanto
Quegli incolpato, e ‘l popolo trojano
Riputato innocente: adesso è il tempo
Di confermarci in tale opinione,
O di farci, veder , che il fallo è suo,
E ‘l consiglio è comun, se decidete
In suo favor ; ma se (qual’io mi spero)
Di giustizia seguendo il cammin dritto,
Contro di lui vi dichiarate, e ‘l vostro
Parer fia il nostro a noi render ormai;
Allor più voi nè complici sarete
Del suo delitto, e non potrassi a voi
Del suo fallo imputar l’infausto effetto.
Ma, com’ è mio costume in niuna cosa
Diffondermi a parlar, via maggiormente
In causa giunta esser convien preciso;
Io soprattutto in questo il dover veggo
D’esser più breve, essendo al paragone
Dell’ altre questa, e di natura sua
Tale, che l’orator non ha bisogno
D’affaticarsi molto; a lui bastando
Con semplice dimanda il suo avversario
Convincere. E per Giove Albergatore,
Dimmi Paris di grazia, hai tu le nostre
Cose rapite? E rendile tu dunque.
Per ingiuria l’hai tolte ? Aspetta il fio,
E la condegna pena. Or ti conviene
Mostrar, che tu non l’hai unqua rapita,
O se il ratto confessi, almen tu dei
Protestar, che il disegno oggi abbandoni
Di volere serbar ciocchè rapisti:
Ma che me delle cose a me più care
Tu spogliasti, negar non l’oserai,
Perchè sento, ch’è questo il tuo costume,
Delle tue scelleraggini lodarti.
Ed essendo così, nel cor la voce
Della giustizia, ed onestà si tacque
Quando stendevi l’empie mani al nostro?
E la legge comun del sacro albergo
Non ti distolse dal nefando eccesso ?
Non aspettar, ch’io ti rinfaccia poi
Le insidie apertamente architettate
Contro la nostra vita; era l’impresa
Difficile per te, nè tu gagliardo
Sei tanto, e noi cosi da poco, e vili,
Che lusingarti un esito felice
Ti poteva. Ma udite or come sia
La cosa andata, avendo io ben sospetto,
Ch’ egli non vi abbia, come il fatto accadde
Narrato, ma piuttosto ei con menzogne
La scelleraggin sua abbia velata,
Per comparire a VOI men delinquente;
Che ogn’uom, che pecca, il fallo adombra, e spera
Di persuadere altrui, che l’error suo
Tale non fosse, o che ragione avesse
D’averlo fatto, acciò fosse per giusto
Sempre tenuto. Or ecco il fatto; udite.
Pose piede in Laconica Alessandro,
E l’apparenza dell’esterno volto,
La degli abiti suoi pompa, e ricchezza,
L’egregia compagnia, che lo seguiva,
Fe’ a tutti giudicar, ch’ei della plebe
Un uom non fosse, e che piuttosto un ricco,
E distinto signor del suo paese,
Indi a Sparta pervenne, e di lui cose
Degne di maraviglia ognun dicea;
Commendando ciascun le sue maniere
Affabili, modeste, e soprattutto
La gran bontà, che il distinguea fra i suoi.
Ed ascoltando, che d’albergo eguale
Al merto suo aveva egli bisogno,
II dover mi parlò per lui nel core.
La mia casa gli apersi, alla famiglia
Il commendai, ed alle mie più care
Cose, la moglie, e la diletta figlia
Il condussi, di lui non sospettando
Ciocchè, o Trojani, alfin da lui mi venne;
Nè sospettar potea così esecrando
Misfatto, essendo Giove Albergatore,
Giove conciliator di cose tali
Presidente, e custode, e nel supposto,
Ch’onorasse gli Dei tanto colui,
Che i stranieri albergava in casa sua,
Quanto colui, che ricevea l’albergo
Dalla degli altri umanità pietosa;
Anzi dippiù, che il comodo maggiore
È dalla parte di colui, che prende
Il beneficio, e non di chi il comparte;
Com’or quanto credete, o voi Trojani,
Che rispettiam d’Antenore la casa,
Che ci accoglie benigna? E quanto bene
Non agogniamo a un uom cotanto umano,
Che i beneficj suoi su noi diffonde?
Noi gli preghiam dal Ciel, che sian lontani
Tali disastri dalla sua famiglia,
E che di sua umanità giammai
S’abbia a pentir, come mi pento or io.
Ero umano così coi forestieri,
E cortese, e benigno, e venga innanti
Paris, e ‘l dica, unqua bisogno alcuno
S’ebbe in mia casa, e non trovò ben pronto
Come al bisogno soddisfar; se mai
Mi rincrebbi, di lui, se mi dispiacque
La lunga sua in casa mia dimora:
Non ebbe egli da me ciocchè richiese,
Che grande fosse, ovver picciola cosa?
Nostra avarizia avesse egli osservato
In cosa alcuna? Or men riprenda, e ‘l dica.
È stato offeso mai? Ha ricevuto
Un’ingiuria da noi ? Dicalo adesso,
Ed io confesserò, ch’ una di mille
Ingiurie fatte, ho ricevuto, e ‘l meno
Di quel molto, ch’ io avea ben meritato.
Ma no, che incontra a noi non può levarsi:
Perchè non ha ragion di noi dolersi.
Io nol guardava mai, nè su di lui
Un occhio di sospetto io rivolgeva,
Che sconvien coll’amico, e con colui,
Che come famigliar hassi in sua casa,
E nella cui fiducia er’ io sicuro.
Tutto, a Trojani, egli tradì, la mia
Fede violò, de’ beneficj miei
Un ingrato compenso egli mi rese,
Che per l’ umanità misfatto, ed odio,
Per l’albergo rapina, e per l’onore
Biasmo, e vergogna, e per la fe serbata
Empia mi ha resa crudeltà inudita:
Nè temendo gli Dei, e lor negando
II rispetto dovuto, e di noi nulla
Vergogna avendo, ovver del re suo padre,
Ch’ udimmo aver de’ Dei tema, ed onore,
E che fe tutto, acciò colpevol mai
Fosse il figliuol; rapì la mia consorte,
E portò via pel mare i miei tesori;
Senza dir altro poi de’ servi, e quanto
L’empio commise in casa mia, che nulla
Ripeter giova a chi conosce il resto;
Che sa ben Troja, e manifesto è a tutti
Quel che recò, quanto a mio danno è ricco
De’ beni miei: e se l’ignora alcuno
Vada in casa di Paride, e là vegga
Quanto di nuovo vi si trova adesso,
Che Troja non avea, Priamo, ed i figli;
E gli chiegga, dond’ hai tu questa donna?
L’avesti in moglie, ed in quel modo istesso,
Ch’ Ecuba diessi a Priamo tuo padre?
Ei per vergogna mentirà, ma forse
Dicendo il ver, confesserà la sua
Scelleraggine, e insiem la sua impudenza.
Nè rincrescervi dee, che il mio discorso
Chiaro è così, e manifesto, e aperto;
Ch’altrimenti ottener io non potrei
Ciocchè chiede giustizia, e voi la cosa
Come accaduta sia mai non potreste
Conoscere, o Trojani, e giudicare
Quanta all’opere sue riprensione
Si convenga; perchè quando l’offeso
La sua ingiuria disvela, all’offensore
Tanto ciò spiace, quanto affanno al core
Ebbe colui, che sopportonne il danno:
Nè puole alcun giustificar giammai
La dimanda, se insiem quei non incolpa
Che della scelleraggine è l’autore;
È per ciò chiara mia dimanda, e giusta:
Che sol due cose assolvono di colpa
Un reo; se il fallo non è vero, o pure
Se a commetterlo aveva egli ragione.
Ma se Paris non può negare il ratto
D’Elena, e de’ tesori, e nè ragione
Addur mi può, perchè l’abbia rapiti,
Chiaro non è ciocchè dovrebbe in questo
Caso eseguir ? È ver l’ho tolto, ei dice,
E meco l’ho, non mi dar noja: e questa
Qual ragione è di grazia? Avvien ben spesso
Che ingiustamente altri rapisca, e s’abbia
L’ altrui, ma non perciò egli possiede
Con giustizia, chè sol quel che si acquista
Senza colpa, un legittimo possesso
Accorda al possessor, onde non giova
II posseder come tu lei possiedi,
Perciò io non abbia a chieder la ragione.
E tu nol vedi ognor, come puniti
I sacrileghi son, che degli Dei
Rubano i tempj, e i Sacrosanti altari?
Che se bastasse per difender l’uomo,
Ch’ ha rapito l’altrui, il dir soltanto,
L’ho posseduto; allor non vi sarebbe
Colpa ne’ ratti, e ‘l predator felice
Sarebbe, che l’altrui goda contento;
Ma se il ratto è in ciò posto, allorchè alcuno
Tolto ha l’altrui e senza una ragione
II possiede, e sel gode, e ciò non senza
Ingiuria, e danno di colui, che avea
Dritto ad averlo; or come in questo caso
Chi l’ingiuria recò, sarà innocente?
E se Paride vostro, il padre espulso,
Dal regno, sa di voi sovrano impero
Usurpasse, parrebbe onesta cosa,
E sopportabil questa agli occhi vostri?
Si tacerebbe allora il padre istesso
Di un’ ingiuria sì atroce? E voi sareste
Lenti a punir l’usurpatore ingiusto,
Senza correre ai sassi, e lapidarlo?
E dici il men tu Paride, se dici,
Che m’hai la moglie, e i miei tesor rapito;
Dei di più dir, che mi facesti ingiuria,
E che qual si dovria giustizia al padre,
Privandolo del regno, ancor si deve
A me, che con ingiurie il mio rapisti;
Una dovunque, e invariabil sempre
Essendo la giustizia, e a tutti eguale.
Ma Paride soggiunge: Abitiam noi
Una parte del mondo, ed abitate
Un’altra voi, per cui siamo nimici.
Che follia! Chi lo dice? Ovunque siamo
Uomini, e tutti della specie istessa,
Tutti fratelli, e tutti amici, e eguali,
Una madre comune avendo tutti.
Ma sia come tu dici; ed è poi giusto
Rapir, condurre, e menar via fuggendo
Del nimico, che in nulla aveati offeso
Le sostanze, e la moglie? E dimmi ancora,
Era giusto albergar del tuo nimico
Nell’offerto palagio, ottener doni,
E tutto quel, di cui bisogno avevi?
Io quanto più bramasti, a te fei dare,
E s’io t’era nimico, a te qual cosa
Convenia, che schifar del tuo nimico
La stanza, e i beneficj? E perchè mai
O valent’uom tu nol facesti allora?
Perchè trattar con chi (come tu affermi)
T’era gran tempo già nimico? II tuo
Comodo allor mi ti rendeva amico,
Perchè poscia tornar alla tua vecchia
Nimicizia potessi? O veramente
Delli barbari sol degno sistema!
Nulla tra noi, finchè tu fosti in Sparta
Fuvvi, di cui tu lamentar ten puoi;
Dunque se antecedente era la tua
Inimicizia, allor perchè celarla?
Perchè amicizia mi fingevi in volto,
Mentre l’odio del cor sedeati in mezzo?
Ma se così non era, almen sapessi,
Perchè di mente ti cangiasti, almeno
Dimmi perchè cangiasti opinione,
E ti piacque d’offenderci? Per Dio,
Manifestami almen questo motivo;
Ma che puoi dir, che immaginar tu puoi,
Per iscusar il più esecrando eccesso?
Solo, che avendo tu nel tuo segreto
Animo tanta iniquità concetta,
Entrasti in casa mia da forestiero,
E da nimico poi te ne partisti;
Indi celando altrui le frodi tue,
Speciosi nomi alle malvage azioni
Dasti, ma invan, perché non son conformi
Le parole alle cose, e alla natura
Delle cose medesme; andar d’accordo
L’une all’altre dovendo, e insieme unite.
S’egli venia con lunghe navi a Sparta,
E numeroso esercito, recando
A noi la sua inimicizia espressa;
L’armi sue contro noi quindi rivolte,
E col favor della fortuna, ovvero
Di sua virtù noi combattuti, e vinti
Avesse, e la città presa d’assalto,
Di noi, del nostro allor fatto signore,
Elena a lui della sua preda in parte
Toccata, posseder tranquillamente
Potea in pace, era sua, ed a ragione;
Che pazzi noi non siam, che della guerra
Dir volessimo i premj essere ingiusti.
Ma se venn’egli in un diverso aspetto,
Pace indicando la sua armata, il suo
Volto, il suo dir, e ‘1 vivere con noi,
Ed ha la fine dal principio suo
Dissimile poi reso, è buon che sappia,
Che la vittoria differisce assai
Dalla rapina, e che l’inganno è molto
Dalla virtute militar diverso;
Quella fa l’uomo illustre, e questo vile,
Che ciò che per valor non può ottenere
Dall’artificio, e dalla frode ottiene:
Che la ragion sembra voler, che i beni
Del vil passino al forte, e della guerra
Ciò permetton le leggi, ed il costume;
Ma che un uom, che non osa addimostrare
L’inimicizia sua, abbia a rapire
Ciocché appartiensi ad uomini più illustri,
È ingiurioso assai, e di supplicio
Degno per Dio, e d’esemplar castigo.
Donde, o Trojani, è manifesto, e chiaro,
Che non siam noi, che abbiamo ingiurie tali
Da voi sofferte, della guerra autori,
Ma vindici piuttosto, e per ragione
De’ torti ricevuti abbiamo a Troja
L’esercito condotto, e che alle mie
Ragionevoli accuse oppor non puole
Paris, ch’una sfacciata, e intesa mai
Audacia, in cui ogn’uom supera, e avanza:
Né perciò noi corriam subito all’arme,
Tentando d’ottener pria colla lingua
Quel che col sangue disputar conviene;
E ciò prima perchè degno è dell’uomo
Tentar mezzi innocenti, e richiamare
Persuadendo il nemico alla ragione;
Indi perché non sembra a noi ben fatto,
Che il delitto di un sol paghino molti;
Ciocchè deve accader, se si comincia
L’armi a trattar, chè nel cimento estremo
Non si distingue l’innocente, e ‘l reo;
Né v’ha luogo il perdon, tutti nimici
Sendo quei, che difendono l’autore
Del ratto, e della guerra. E a quest’oggetto
Perchè nissun di voi fosse nel caso
Preveduto, abbiam qui questa spedita
Greca legazion, perchè si tolga
Della guerra il fomento, e tutti in pace
Restiate voi, e noi torniamo in casa.
Oltre di ciò crediam, che nella guerra
II favore divin molto giovasse
Non a color però, ch’han più baldanza,
Ma la cui causa è dell’altrui più giusta;
Ed è per ciò, che noi questo volgendo
Nel nostr’animo, abbiam pria che la guerra
S’ incominciasse, a voi questa inviata
Legazion, perché si ritrovasse
II mezzo, e ‘l modo, onde portare a fine
La gran lite pendente, e ‘l comun sangue
Risparmiar quanto possibil fia.
Ma se duri , ostinati in vostra mente
Vi piace il nostro, e renderlo negate,
Per la giustizia della causa nostra,
Fidati nel favor de’ sommi Dei,
Andremo là, dove l’ingiusta offesa,
Ed il vostro negar c’invita, e chiama.
Riflettete per ciò, paragonando,
E la guerra, e la pace; armi, e parole,
La presente che voi vita menate,
D’essa il tenor felice; e quella poi,
Che la guerra presenta, e tutt’i mali,
Che seco porta, ed eleggete allora.
È di somma importanza II vostro affare,
E di riflession somma ha bisogno;
Sapendo ben, che se una volta avreste
Il grande error commesso, invan di poi
Fia l’emenda sperar; che incominciata,
Deve al suo fine andar poscia la guerra,
E deggiono seguirla i mali tutti,
Che tal peste crudel desolatrice
Sogliono accompagnar; che chi le mani
Stende all’armi, non cessa, infin che ottenga
La vittoria, ch’e il fin, che s’ha proposto.
Che per questo, o Trojani , ora che il tempo
Avete ad impedir tante sciagure,
Quante seco portar suole la guerra,
Consigliatevi ben, ed eleggete
La pace ad ogni costo, e non la guerra;
Perchè altrimenti, se vorrete un giorno
Consiglio ritrattar, da tutto indarno.
Oltre di che, se a voi non soprastasse
Questo gran rischio d’una guerra eterna,
E l’apparato di sciagure estreme,
Anche il vostro partito esser dovrebbe
Quello del giusto, e del dover, che tema.
Non rende mai virtuoso, e retto un uomo,
Qual esser dee ciascun sol per amore
Della virtù, del giusto, e questi solo
Son coloro, che mai temon dell’altro
L’acceso sdegno, ed il cieco furore.
Se voi dunque imitar questi volete,
E meritar così tutto de’ Dei
Il favor, risolvete il retto, il giusto.
Non vedete, per Dio, sparso pel lido
Un numeroso esercito, cui sembra
Angusto tutto a contenerlo il vostro
Territorio ben grande, e spazioso?
Quei, benchè sono di città diverse,
Tutti son Greci, e tutti offesi, e tutti
Hanno un solo pensier, alta vendetta.
Essi anelan la zuffa, e un giuramento
Benché non si richiegga ad impegnarli
Nel vostro eccidio, un giuramento han pure
Solenne fatto, vendicar la Grecia
Col vostro sangue, e non veder giammai
Le care spose, ed i diletti figli,
Se non avran vostra città distrutta.
E chi tra voi sarà sciocco a tal segno,
Che non elegga senza danno alcuno
Renderci il nostro, che ci fia poi reso
A malincuor dopo sciagure immense?
Forse temete men nostra minaccia,
Perché l’evento della guerra è incerto?
No, non l’è questo della nostra invero,
Nè si dubita mai, se alla giustizia,
Od alla scclleraggine si deve
Premio, o mercè; se onore all’una, e all’altra
Biasmo, e vergogna. E se di questo mai
Dubitar non conviene, invan di poi
Si dubita, se possa un buon effetto
Aver la guerra di colui, che l’armi
Prende per causa troppo santa, e giusta.
Che se fidate poi nelli soccorsi
De’ popoli vicini, io v’ assicuro,
Che il solo Ulisse li farà sparire;
Tant’uso ei dell’industria, e dell’ingegno
A danno vostro, e presso i Re vicini
Farà; nè ciò per evitar la guerra;
O Trojani, vi dico, io più di tutti
Anzi l’anelo, e la desio, ch’io voglio
Di propria man l’onta punir col sangue
Dell’offensor: ma di più cose io taccio,
Che a dirvi avrei; che se quello che ho detto
Finor non basta, inutile sarìa
Udirne il resto. Io chiamo in testimonio
Te Giove albergator, chiamo voi Dei
Tutti, che presedete in Troja, avendo
Tempj, ed altari, e in grande onor tenuti;
Che provocati da un’atroce ingiuria,
Offesi i primi, abbiam le nostre armate
Contro Troja recate, e che al presente
Siam dai Trojani a cominciar la guerra
Stati costretti, incontro il giusto avendo
Essi negato renderci quel nostro,
Che con ingiuria della Grecia intera
Paris rapì dalla mia casa in Sparta.
Misera me! Ciocchè gl’ infausti sogni,
Ciocchè il cor mi predisse, e ch’io temeva,
Tutto avvenne alla fin! Ettore è morto!
Che non feci quel dì? Quant’ io non piansi,
Non pregai, che restasse? E quanti al Padre
Porsi tra miei singulti ardenti prieghi,
Perchè non permettesse uscir di Troja
II suo figlio ostinato? Il mio fanciullo
Non gli gittai ai piedi? Ahi tutto invano!
Che disprezzando Ettorre i pianti miei,
Le mie preghiere, e del bambin l’amore,
Corse là, dove il suo destin crudele
L’attendeva, e morì! Ah sì, che allora
Quando il ferro inimico a te rapiva
L’ultimo istante, allor tu conoscesti,
Che il mio preludio era verace; il mio
Cor non tradiva i sentimenti miei;
E che a ragion io t’ammoniva, Ettorre,
Di te medesmo almen, giacche del figlio,
Giacchè pietà di me tu non sentivi,
Prender compassion, cura , e tutela,
Ma tu troppo di te fidando, il tuo
Fato affrettasti, e nulla in tua difesa
Valse quel braccio, che de’ tuoi nimici
Era il terror! Oh Dei! Ettore è morto!
Per man d’Achille, e non tra queste braccia!
O terribile morte! E qual più resta
Oggi speranza al sua dolente Padre,
Ad Ecuba infelice, ed ai fratelli,
E a questo pargoletto, unico bene,
E a me medesma or desolata, e a Troja?
Nella perdita sua tutto è perduto:
Che se noi tutti difendeva ci solo,
Estinto lui, alla rovina estrema
Tutti corriam. Ed io sono di tutti
La più misera ancor, io, che spogliata
Resto di quanti beni avea la sorte
Intorno a me profusi. Avea nel Regno
I genitori miei, e i miei fratelli
Non pochi, ed ogni cosa a me seconda,
E propizia avveniva; e quel ch’ogni altra
Cosa avanzava poi, era consorte
D’un guerrier sì famoso, onde beata
Era io tenuta, e l’era infatti: alcuno
Se veniva da me, ei mi chiamava
Andromaca non sol, ma soggiungeva
D’invitto Imperador moglie felice.
Perchè invecchiar in sì propizio stato
Non ho potuto? Ah mel vietò quel crudo
Figliuol di Teti a mia sola rovina
Nato, il qual non contento avermi il Padre
Tolto, ed uccisi i miei fratelli, e fatta
Schiava la Madre, e quindi resa, ha morte
Poscia levata ancor; m’ha Ettorre ucciso,
Ettorre, il qual le perdite di tutti
Solo mi compensava, e mi rendeva
Soffribile di quei l’aspro destino;
Trovando in lui ogni mio bene, ed ogni
Felicità desiderata. Oh Dei!
Tu non sei più! Tu fosti ucciso, Ettorre!
Noi più non siam. Eccoci già rapite,
Eccoci de’ nimici aspro bersaglio:
Ecco tutto in rovescio, ed ecco il rischio
D’ogn’ intorno ci assale, e ci minaccia:
E di Troja l’incendio, e la rovina
Ecco si appresta . . . Oimè! parmi vedere
Là trucidati i miseri Trojani,
Qui le mogli straziate, e per le chiome
Tratte pel foro, e i figli ancor bambini
Messi in pezzi, ed il ferro, e ‘l foco insieme
Distrugger tutto, ed adeguar le mura:
Ecco ai nimici aperta Troja, Ettorre
Non più potendo oppor sua resistenza
Dianzi la porta Scea, ov’egli solo
A far fronte bastava ai Greci tutti:
Ahi fanciullo infelice! E quale il tuo
Destin sarà, morto il tuo padre invitto?
Ah de’ nimici alcun forse dall’alto
D’una torre Trojana in giù . . . che dico?
Qual immagine nera il cor si crea!
Era gagliardo il genitor, diratti,
Vendichiam su di lui de’ nostri il sangue.
Ed io?.. Chi sa, di qual aspra violenza
II bersaglio sarò. Almeno uccisa
Fossi, che ciò m’è più sofiribil cosa.
Ma forse, oimè, non lo sarò, ma tratta
In vile schiavitù, le battiture
Saranno il men delle disgrazie mie;
E sino alla vecchiaja a me compagne
Le lagrime saranno: e temo ancora
Veder la terra del nimico, ed ivi
Scherno di greca baldanzosa audacia
Soffrir gl’insulti altrui sarò costretta:
E quel che più del cor fora il maggiore,
E più atroce martirio, e che quest’alma
Solo in pensarlo si rivolta, e freme,
È, che forse sarò per viva forza
Costretta ancor di mi giacer con quello,
Ch’ha messo a morte il mio diletto Ettorre.
A racconto di Mnea Fenice Damasceno nel libro 97 delle Istorie, Dardano figlio di Zeus, e di Elettra nata da Atlante, a consiglio di un Oracolo abbandonò l’Italia, e venne a Samo, e di là per la Tracia, che chiamò Samo Tracia, pervenne nella Frigia, ove fabbricò una Città, che dal suo nome chiamò Dardania, e dopo avervi regnato anni trentuno, morì, lasciando il Regno al di lui figlio Erittonio, che il tenne per anni settantacinque, e gli successe il suo figlio Troe, che regnò anni sessanta, e per eternare la sua memoria, chiamò Troja dal suo nome la Città di Dardano. Costui ebbe due figli, Ilo, che gli successe, e regnò anni cinquantacinque, ed Assaraco. Anche Ilo diede il suo nome alla Città, che chiamò Ilio. Assaraco non ebbe impero, ma generò Capio, dal quale nacque Anchise Padre dì Enea. Da Ilo nacque Laomedonte, che dopo trentasei anni di Regno, fu ammazzato da Ercole nell’invasione di Troja fatta dagli Argonauti; ed a Laomedonte successe Priamo, che dopo un regno di anni quaranta cadde per le mani di Pirro figlio di Achille nella notte della presa di Troja.
Cornelio Nipote a Crispo Sallustio S. Cercando io più cose curiosamente In Atene, mi venne trovata di Darete Frigio l’Istoria scritta di sua mano, come il titolo fa manifesto, nella quale egli de’ Greci, e de’ Trojani scrisse. Io avendola sommamente grata, immantinenti nel latino la trasportai; nè mi parve convenevole accrescervi, o scemarvi alcuna cosa, affinchè non fosse creduta esser mia. Parvemi adunque convenevole, che siccome era veramente con semplicità scritta, cosi di parola in parola nel latino voltarla; acciocché possano i lettori conoscere come avvennero le cose, che Darete Frigio scrisse; il quale visse, e fu soldato a quel tempo, che i Greci contro li Trojani combattevano. Nè debbesi credere ad Omero, il quale nacque dopo molti anni, e fu in Atene, come per pazzo tenuto, avendo egli scritto, che gli Dei cogli uomini combatterono.