Ibis capitoli


Testo

IBIS

IBIS CAPITOLO I

Già dieci lustri d’una vita, ahi! cruda,
Ho valicati, ed alle altrui pupille
D’armi comparve ognor mia Musa ignuda;
né legger puoi fra mille carmi e mille,
Che di Nasone il facil estro ordiva,
Una lettera sol, che sangue stille.
Né con sue note ad altri mai nociva
Fu questa cetra, eccetto a me soltanto,
Quando l’autor per l’arte sua periva,
Un solo or fiede l’orgoglioso vanto
D’aver io dolce un spirto e mansueto,
E ciò m’è al nome ingiurioso ahi! tanto.
Costui, qual fia, che serbo ancor secreto,
Costringe ora la man d’un innocente
Il dardo ad acconciar sull’arco insueto.
Fin dentro il proprio esilio ei non consente,
Che gema occulto un misero, bandito
Qui, d’onde erompe l’Aquilone algente;
E crudo insulta a uom diggià ferito,
Che pace implora, e in tutto il suol natale
né rende il nome lacerato e trito;
Né soffre, che del talamo nuziale
L’eterna socia asperga di bei pianti
Del misero consorte il funerale.
E avvinto di mia nave ai pini infranti
Me contemplando, a torre ei pugna audace
Gli sparsi abeti a naufrago restanti.
E chi spegner dovea la fiamma edace,
Di mezzo all’igne crepitante e spesso
La preda afferra colla man rapace.
E s’arrovella, onde non fia concesso
Ad esul voglio un pane, oh! il danno mio
Quanto più merta, di soffrire ei stesso
Men crudi fur con meco i numi, e ‘l Dio
Anzi per me maggior, che l’indigenza
non volle a socia dell’esilio rio.
Poiché dunque Ei m’usò cotal clemenza.
Ovunque un empio mi vorrà, destino,
Eterna avrogli in cor riconoscenza.
Cotai protesti ascolti il Ponto Eussino:
Chi sa, che un piorno, l’odio mitigato,
Ciò non ripeta in suol più a Lui vicino?
Ma tu, che me veggendo profligato,
Con piè brutal mi premi, oh tu m’avrai
Rivale acconcio, sappilo, sciaurato.
Amico all’onda il foco anzi vedrai,
E della notte il pallid’astro un solo
Globo formar con chi gli spicca i rai;
E nati a un canto sibilar pel suolo
Zeffiro, ed Euro, e il vento Austral, che spira
Tepente, uscir dall’agghiadato polo;
E sollevarsi dall’accensa pira
Concorde il fumo alla celeste spera
Di lor, cui vieta divideva un’ira;
E gir frammisti Autunno, e Primavera,
E Verno, e State, e in la regione istessa
Brillare il giorno in un coll’altra sera;
Prima, che l’arme in la vagina messa
Io stringa teco quella pace odiata,
Che le tue azioni, empio, per sempre han fessa:
Prima, che del mio cor fia cancellata
Cotanta angoscia, o il tempo annoso, e l’ora
Mi faccian l’ira contro te placata!
E quella pace avrò con teco ognora,
Cui lupo atroce all’agna fral concede,
Finché spunti per me la estrema aurora.
A guerreggiar m’accingerò col piede
Scelto di già, sebben l’arme non sia
Questa cui l’arte di bellar richiede.
E qual lieve guerriero a tenzon ria
Non anco acceso, entro la fulva arena
D’arido acciaro i primi colpi invia,
Tal io l’acuto strale appena appena
Altrove drizzerò, né il brando fero
Figgerò tosto nella ostil tua vena.
Né qui dirò chi sii, né qual sentiero
Battesti, e i tratti tuoi farò che cinti
Per poco sien da un abdito mistero.
Ma se prosiegui, oh ti saranno spinti
Di Giambi armata, dalla Musa ultrice
Dardi nel sangue di Licambe tinti.
Com’or dal cor furenti imprechi elice
Contro il rival il vate di Cirene.
Quella a te sì, e al tuo sangue or maledice,
Eri a suo esempio in storie non serene
Miei carmi involverò, benché allo stile
Ciò non s’addica delle mie Camene.
L’uso obbliando, e l’indol mia gentile,
Diran che seguo i misteriosi accenti
Nell’Ibi anch’io di quel cantor sottile.
E poiché taccio alle bramose genti
Tuo nome ancor, quel, che al volucre danno,
Tu pur per ora, anima vil, ritienti.
E come i carmi un po’ di notte avranno,
Tutta la serie di tua vita sie
Funestata cosi d’un vel tiranno.
del tuo natale nell’infausto die
E del Bifronte Nume in le calende,
Ti legga un veritier coteste rie
Imprecazioni provocate, orrende.