Ibis capitoli


Testo

IBIS CAPITOLO VIII

Feta lionessa, cui tuo suol produce,
T'incontri, e qual Pafage in campo avito
A te sia la cagion di scempio truce.
Qual di Licurgo il figlio, o Idmone ardito,
O chi di pianta uscì, d'un apro il dente
Faccia te pure e lacerato e trito.
Ed esanime ancor, plaghe cruente
Al cor l'imprima, al par di chi fu estinto
Dal grugno appeso
d'un cinghial furente.
O dalle sue radici un pin discinto
Crudo ti schiaccii le tranquille gene
Qual Frigio venator sul Berecinto.
Se di Minosse il tuo battel le arene
Appresserà, lo stuol, che in Creta ha sede
Te creda un tal, che di Corcira viene.
Sotto casuro tetto innoltra il piede,
Qual razza Aleva, quando a Simonide
Del cielo un astro die' gentil mercede.
E immerso in onde vorticose e infide
Dà il nome, qual Eveno, o Tiberino
A flutto, che l'umor rapido guide.
E il teschio tuo, pascol benché ferino,
Dal busto ahi! sciolto, un uom possa nutrire,
Qual fu di Menalippo il rio destino.
Ed abbandona sovra ardenti pire
Le membra tue, qual ebbe, dicon, sorte
Broteo deforme, ansioso di morire.
E chiuso in un gabbion la tarda morte.
Di quello soffri, cui le scritte gesta
Apriro sol del Tartaro le porte.
E La tua lingua o lacerar si presta,
Come del marzial giambo al fabbro arguto
Sia a te di morte la cagion funesta.
E scendi inviso alla magion di Pluto
Da fame spento, come chi ferie
Con carme Atene, cui l'obblio fe' muto.
E come è fama si morisse un die
L'acre cantor, così l'offesa palma
Triste cagion di tua ruina sie.
E come a Oreste già spegneva l'alma
Serpe esizial, così fra doglie pera
Di velenoso morso ancor tua salma.
Del tuo nodo nuzial la prima sera
Fia l'estrema dei dì: cedeano il frale
Eupoli, o la nea sposa in tal maniera.
E qual dicon cadèo d'acuto strale
Il coturnato Licofrone, riceva
Così tua fibra una sagitta equale.
E lacero de' tuoi dalla man seva.
Sii in boschi sparso, come in Tebe il fue
Chi ad avo già terribil idro aveva.
O sian per aspri gioghi l'ossa tue
Da un tauro tratte, come un dì l'ardita
Donna di Lico trascinava un bue.
E tronca innanzi a' piè l'inaridita
Lingua ti cada: sofferia tal duolo
Chi della suora fu rivale invita.
Trovato sii per molte vie del suolo,
Come di Mirra il genitor, che tardi
Del finto nome ha conosciuto il dolo.
Ed api ultrici ne tuoi cupi sguardi,
Come all'Acheo poeta, a stormo unite
Vibrino irate i lor nocivi dardi.
E fisso a duri sassi le abborrite
Tue carni sieno lacerate a brani,
Qual chi di Pirra patruo s'addite.
Offri gli esempli di Teseo strani
Qual d'Arpago il fanciul, che adusto empia
Del padre inconscio i corporali vani.
Mozze le membra a te con lama ria,
Qual di Mimmerno il sciagurato figlio,
Trascina il monco fral per l'ardua via.
Come il Siculo vate all'altro ciglio
D'ognun ti svela con le fauci avvinte,
E soffocate da crudel vinciglio.
Mostra i precordi, a te le cuti scinte,
Al par di lui, che die' suo nome, ahi stolto!
Di Frigia ad onde del suo sangue tinte.
Mira, infelice, di Medusa il volto
Possente ad impietrar, che a cento, e cento
Cefeni in un sol dì la vita ha tolto.
E come Glauco ti riduca spento
Di Botnia il dente equino, e salta in mare
Qual altro Glauco a soffocar l'accento.
O il Gnosio miele possa a te strozzare
Dell'alma ogni respiro; avea tal fine
Chi il terzo Glauco si solea nomare.
Con man che tremi, e insiem con l'irto crine
Il nappo liba, cui libò pacato
Il reo d'Annito d'inclite dottrine.
Se nutri amor, d'Emon più avventurato
Non sii tu già, né più di Macareo
Vivi all'amplesso di tua sposa grato.
E vedi sol quanto il fanciul vedèo
D'Ettor dal patrio ostello allor, che d'adre
Fiamme ogni obbietto rorido si fèo.
Sconta col sangue i falli, qual chi a padre
Ebbe l'avolo un giorno, e la sorella
Per colpa oscena a sciagurata madre.
E nel tuo fral s'infigga una quadrella
A quella egual, che all'Itaco severo
Estinse, dicon, la vital fiammella.
E come un giorno entro il caval d'Acero
A voce arguta s'ebbe chiuso il varco,
Tu pur soffri da man tal gioco fero.
Pesto in all'urna sii qual Anassarco,
E sonin l'ossa al par de' cereali
Di tonda pietra sotto il mobil carco.
T'adimi il ciel ne' baratri infernali,
Come Crotopo, che i lascivi orrori
Della figlia punì con doglie eguali.
E ognun de' tuoi quell'aspide divori,
Cui la man vinse di Corebo armata,
De' Greci sollevando i tristi cori.
Qual Ippolito già, cui Venu irata
Spinse a morir di corridor furenti,
Esul, t'uccida coppia ispaventata.
Come l'ospe svenò per gli ori ingenti
L'alunno già, così da ospiti folli
I rai ti sian per vil moneta spenti.
E qual Damasittone, e i sei fratelli
Estinse, è fama, una sagitta dira,
La stirpe tua così, con te si svelli.
E come il suonator di dolce lira
A' figli muti unio sua salma allora,
A te così torni la vita in ira.
E come di Pelope un dì la suora,
Sii tu converso in taciturno sasso,
O come Batto la tua lingua ancora
D'ogni spirto vital ti faccia casso.