Ibis capitoli


Testo

IBIS CAPITOLO VII

Sia tu deserto quale Achemenide
Sul Sicul Etna, allora quando a' rai
D'Ilio li si offerir le antenne fide.
D'Iro binomio più mendico assai
Sia o di color, cui veggonsi sedere
Tristi sul ponte a palesar lor guai.
Ed ama indarno il figliuol di Cere,
E del continuo prego in ria mercede
Nudo ti faccia dell'estremo avere.
E qual sabbia leggier, cui sotto incede
Tacita l'onda per alterna via,
Di chi la preme, si sottragge al piede,
La sorte tua così, qualunque sia,
Svanisca ognora, e quando par mansueta
Si sfugga dalla man, che la desia.
E come il padre di colei, che è assueta
Varia forma a pigliar, canina fame
Della tua inerte vita il filo mieta.
Né fastidiose a te d'uman carname
Siano le atroci dapi, e come puoi,
Fa che un Tideo la nostra età te chiame.
Qualch'opra adempi, onde i cavalli suoi
Febo tremente dagli Esperi liti
Guidi respinti ai padiglioni Eoi.
Rinnoverestii i luridi conviti
Di Licaon, tentando l'almo Giove
Sedur con cibi dalla frode orditi.
E con tue carni bramo alcun, che prove
Dei Numi eccelsi la terribil possa,
E in te Pelope, o Iti novel ritrove.
Per vasto suol ti sian disperse l'ossa,
Siccome quelle che frenar repente
D'irato genitor la pronta mossa.
Nel bronzo di Perillo il suon dolente
Del bove imita con eguale voce
All'animal, che quello rappresente.
E reso elingue entro il metallo atroce
Mugghia di Pafo, qual s'udiva un giorno
Falaride muggir, tiran feroce.
E a verde età bramando far ritorno,
Come il vegliardo suocero d'Admeto,
Soffri tu pure un micidiale scorno.
E cavaliero, un supero decreto
T' immerga in mezzo a poltiglioso speco,
Purché stia sempre il tuo morir secreto.
E muori tu (colgano i Dei mio preco!)
Come chi nacque dagli acuti denti
Sparsi del re Sidon pel campo Greco.
E cadan sul tuo capo i crudi accenti,
Che al nato di Piteo, od al fratello
D'empia Medusa usciano frementi.
E quei lanciati nel picciol libello
Contro il volucre avezzo a ripulire
Coll'onda spinta il lurido budello.
E tante piaghe soffri acerbe e dire,
Quante colui da' funerai del quale
Suolsi tuttora ogni coltel bandire.
E attonito la parte genitale
Ti mozza al par del Coribante insano,
Cui Vesta al suon di Frigio liuto assale.
Ed un connubio in te si vegga strano
Di donna, o uom, qual Ati, e l'affiocato
Timpano scoti con leggiera mano.
E in animante alla gran Dea sacrato,
come chi vinse, e chi fu vinta in corso,
Ognun ti vegga in un balen cangiato.
D'un cavallo te sbrani il fero morso,
Né tanto strazio all'impudico seno
Della Limione sol si legga occorso.
O di Cassandro tu crudel non meno,
Siccome il suo padron, tutto ferito
Sotto riposa a' mucchi di terreno.
O in urna chiuso sia tu seppellito
Tra i vortici del mar, come Perseo,
O di Lirnesso il difensor perito.
Od ostia vil sul sacro altar Febeo
T'immoli alcun: di morte si funesta
Per mano ostil Teudoto un dì cadèo.
Te maledica in dì special l'infesta
Abdera, e all'imprecato crin fia velo
Di selci dure una crudel tempesta.
O Giove irato col trisulco telo,
Come a Capaneo un giorno, e all'empio Atrace
L'ossa ti strugga dal tonante cielo.
O come a Giasio avvenne, od all'audace
Di Cadmo figlia, o a quella mano ardita,
Che mal sorresse la diurna face.
Come al feroce Eulide, o a chi la vita
Tragge dal sangue istesso, ond'anco elice
I suoi natali l'Orsa inaridita.
O qual in la Macedone infelice
Col suo marito arsa da iroso foco,
Del ciel così ti strugga fiamma ultrice.
E preda sii di lor, che orribil gioco
A Traso fer degli anni in sul mattino,
Ond'è vietato lor di Delia il loco,
Ovver ti colga l'aspero destino
Del triste, che fisò la vereconda
Diana nei flutti, o il Crotopiade Lino.
E piaga t'apra angue letal profonda,
Come l'apriva ad Euridice austero,
Nuora d'Èagro, e della Dea faconda.
O al giovin d'Isipile, o a chi primiero
L'acuto acciar nel cavo, e ligneo core
Figger osò del dubbio destriero,
Né più securo ascendi d'Elpenore
Gli eccelsi gradi, e come a lui la vite
Fatal ti sia col generoso umore.
E spento cadi, come già la vite
De' Driopi allor, che l'implorate e vane
Armi porgean a Tiodamante immite.
Ovver perisci al par di Caco immane,
Quando, tradito dal muggir, coperse
Del proprio sangue le abborrite tane.
O come chi di Lernea tabe asperse
Tuniche offrio, dal sanguine di cui
Gli Euboici flutti roridi poi ferse.
O d'irto scoglio piomba a' regni bui,
Qual chi il lavor di Socrate, che accenne
L'alma immortal, mirò cogli occhi sui.
Come chi vide di Teseo le antenne
Fallaci, o quei, che dal castel d'Ilio,
Fanciullo ancor, precipitato venne.
O la nutrice, o zia del molle evio,
O quei, cui l'invenzion di sega arguta
Fu la cagion crudel, onde morio.
Come la vergin Lidia fu veduta
Gittarsi un dì d'un ispido cacume,
Perché non conservò la lingua muta