O voi del mare, e della terra Dei,
Voi, che con Giove infra le varie spere
Del cielo avete regni assai più bei;
Deh! a me, voi tutti, a me (ven fo preghiere)
L’almo ciglio volgete, e consentite,
Ch’ogni mio voto in integro s’avvere.
Terra tu pur, tu Mar coll’onda immite,
Voi, che sublimi v’adergete, o Cieli,
Pietosi tutti i preghi miei gradite.
Voi Stelle, e tu che di coruschi teli
Imagine del Sol sei redimita;
Cinzia, che all’occhio egual non mai ti sveli;
O Notte, o tu cui tenebra gradita
Fa veneranda, o voi, che li fatai
Destini ordite con tre vostre dita:
O tu, che in triste suono errando vai
per le valli d’Averno, onda, su cui
Non è spergiuro alcun celeste mai:
Dall’altra chioma d’angui attorta, o vui,
Che, qual è fama, i tristi limitari
Sedete a custodir de’ regni bui,
Voi pur Celesti men possenti, e chiari,
Voi Fauni, Semidei, Satiri, Fiumi;
Voi Ninfe leggiadrette, e fidi Lari:
Infine, o voi moderni, e prischi Numi
Dal vieto Caos sino al di presente,
Tutti benigni mi volgete i lumi!
Mentre carme crudel dal cor fremente
A. un vil io lancio, e il duolo, e l’ira chiusa
Al lor dover adempiono possente:
Per ordin posti ai preghi di mia Musa
Deh annuite voi, né sia una parte sola
(minima ancor) del mio desir delusa.
S’adempia il voto, e tal, che mia parola
Non mia, ma sembri di colui, che a spesa
Tolse di Pasifae la, ria figliuola.
E quella ei soffra ancor pena angosciosa,
Che isfuggirammi al labbro, anzi ogni male,
Cui non sovviene alla mia mente irosa,
Né il vel disteso sopra un uom fatale
Le giuste eluda imprecazioni orrende,
Né l’aula impietosisca celestiale.
Impreco ad Ibis, cui lo spirto intende
Chi fia: con l’opre all’alma sua ben note,
Ei la ragion del maledir comprende.
Nullo v’ha indugio in me; qual Sacerdote
Solenni voti io sciolgo... Oh voi presenti
Ai riti sorridete, alme devote.
Chiunque voi siate, luttuosi accenti
Dite: ad Ibis coi pallidi sembianti
N’andate omai di lagrime madenti:
Traete a lui con tristi augurii inanti,
E con sinistro incesso, e i vostri frati
Eieno involuti ne’ lugubri ammanti.
E tu, perché le tempia in le ferali
Bende non celi ancor? Già l’ara è alzata
Pe’ tuoi (contempla!) estremi funerali,
Per te l’orrida pompa e apparecchiata:
Principio ai tristi voti,... Al ferro mio
La gola porgi, o vittima esecrata.
Nieghi a te il suol le biade, l’onda il rio,
Né vento alcuno mai, né auretta alcuna
Ti sia indulgente d’un afflato pio.
Per te sia tetro il sol, tetra la luna,
Gli astri lucenti un debil raggio, e fioco
Mandino solo alla tua faccia bruna.
Né l’aura possa a te giovar, né il foco;
né l’ampla terra, né l’immenso mare
Consentano al tuo piede esiguo un loco,
E debba ognora esul pezzente errare,
Amaro un pan con tremolanti voti
Chiedente invano a stranio limitare.
Né all’alma e fral manchino doglie atroci,
E a te le notti sien dei di più ingrate,
E della notte i giorni più feraci,
Sempre misero sii, né la pietate
D’altri possa goder; e donne e viri
Sentan della tua angoscia ilaritate,
La pioggia de’ tuoi rai lo sdegno inspiri,
E sofferto, che avrai dolore molto,
Ti stimin degno di novei martiri.
E del tuo Fato all’abborrito volto
(Il che ben raro infra il dolor si mire)
Ogni consueto ausilio siagli tolto,
Di morte abbi cagion, sol di morire
A te manchi il poter: non trovi unquanco
L’astretta vita il fin, che ella desire
E si diparta dal dolente fianco
Lo spirto ignudo dopo lenti affanni,
E un lungo indugio pria lo renda stanco.
Si coglieranti gli imprecati danni;
Dienne Apollo il segnal, ed un augello,
Che infausto a manca ha dispiegato i vanni.
Si i Dei corran l’accento, ch’or favello,
E ognor nutricherà le carni mie
Viva una speme di tua morte, o fello.
Gli imprechi solo cesseran quel die,
Che istrapperatti a me, quel di soltanto
Cui temo ahi! troppo ancor rimoto sie:
Ma pur quel dì, che sarà lunge intanto,
Mi spegnerà quest’oltraggiato core,
Cui tu crudel spesso bramasti e tanto,
Pria, che svanisca l’aspero dolore,
Che nel mio seno ha stabilito il regno,
Ovver lenisca il volgersi dell’ore
Contro di te l’equo possente sdegno.