Ibis capitoli


Testo

IMPRECAZIONI DI PUBLIO OVIDIO NASONE CONTRO IBIS

Ovidio in questo poemetto dal suo esilio scaglia quante imprecazioni può suggerire ad una fervida fantasia la perfidia d’un finto amico. La persona, cui fa segno a’ suoi imprechi, volle chiamarla Ibis, ad imitazione del poeta Callimaco, che così chiamò certo Apollonio da Rodi, scrittore degli Argonauti, perché impudentemente spacciava per sue le opere del suo precettore: delitto, cui non di rado s’abbandona la giovane e stolta bramosia di pompeggiare delle vesti altrui.

Il nemico d’Ovidio è per sentenza dei critici certo Caio Giulio Igino d’Alessandria, a lui già famigliare sin dai verd’anni, ricolmo di mille favori, e accreditalo in corte, di cui Svettonio nel libro «de illustribus grammaticis» così la discorre:
«Caius Iulius Hyginus Augusti libertus, natione a Cesare puerum Roman advectum Alexandria capta, studiose et avide imitatus est Cornelium Alexandrum grammaticum graecum, quem propter antiquitatis notionem Polystorem multi, quidam Historiam vocabant; praefuit Palatinae Bibliothecae, nec multo socius plurimos docuit, fuitque Ovidio poetae familiarissimus, et Caio Licinio Consulari historico, qui cum admodum pauperem decessisse tradit et liberalitate sua, quoad vixit sustentatum. Huius libertus fuit Iulius Modestus in studiis atque doctrina vestigia patroni sequutus».

L’Ibis poi è nome d’un lurido uccello Egiziaco, il quale nutresi di rettili, e si esonera dei medesimi spingendo l’adunco rostro per dove naturalmente si ritornano i cibi: ed appunto il nostro poeta volle così chiamare il suo avversario onde o alluderne alla patria o simboleggiarne la ributtante sordità, o la fracida lingua, con cui lacerava il suo nome, cercava novelli pretesti, onde aizzarli contro lo sdegno di Augusto, tentava sedurne la vedovata consorte, né consentiva, che almeno godesse della barbara pace dell’esilio, ed insidiante alle fortune avite meditava rapirgli l’unica tavola del suo naufragio.

Le imprecazioni di Valerio Cato, di Virgilio Marone in Battarum, le poche odi di Grazio Flacco non reggono, a sentenza dei critici, al paragone di questo poemetto: vuolsi ivi ammirare originalità doviziosa di pensieri, spontaneità, e scorrevolezza di verso, vasta erudizione storica e mitologica, ed anzitutto una commendevole delicatezza del poeta, a cui anco nell’eccesso dello sdegno, e fra i moltiplicati imprechi non sfugge il nome del suo nemico.

Malgrado le tante bellezze di questo poemetto, che avrò non poco sbiadito, trasportandolo con minor vivezza nella nostra favella, non so lusingarmi, che molti siano per fargli buon viso; ché ivi non si odono i palpiti d’attualità, né fremono i caldi affetti di patria, né scaturisce quella maschia e robusta vena di generosi sentimenti, cui non valgono ad essiccare negli animi sublimi i diuturni disagi d’un aspro, e forse immeritato esilio. Ed in tempi in cui la politica siede a dispotica regina dei cuori, e forma, direi così, la gemma dei comuni pensieri, si richiede ben altro genere di scritture, che o dolenti elegie, od orrendi imprechi, massime ove questi erompano da una passione tutta individuale.

Tale riflesso comunque non seppe distogliermi dal pubblicare la mia qualsiasi versione, confortato e dal voto d’un esimio personaggio, che gentilmente mi onora di sua confidenza, e dalla vagheggiata fiducia, che quella lacrimevole avversione concepita ai classici poeti del Lazio da un moderno ostrogotismo, sia finalmente per volgere a più miti sensi.

Nel merito della fatica, che qui umilmente rassegno alla implorata indulgenza del lettore, aggiungerò nulla dal canto mio avere omesso, perché con apposite note meglio si chiarisse il concetto spesso nebuloso del poeta; ché se talvolta non mi son recato a scrupolo di scuotere quel giogo servile, che duramente si impongono i più celebri traduttori, egli si fu per piegare il testo originale all’indole dell’italiana favella, studiandomi di rendere fedelmente ogni pensiero dell’adirato poeta, per quanto lo comporta la tirannia del metro, e quella più severa della rima, senza sfigurarlo con parafrasi aliene dal suo vero spirito.
Ceva, addì 5 agosto 1860.