Ibis capitoli


Testo

IBIS CAPITOLO IV.

Triste sei nato, e fu del Ciel decreto;
Né alcun pianeta in la natal tua aurora
Brillar si vide a te propizio e lieto.
Non Venu o Giove raddolcir quell'ora,
Né in loco si trovar troppo allettante
E Cinzia, e l'astro, che la terra indora.
Né quei, cui partorì la conuscante
Maia al gran Giove, a te abbastanza lieti
Rivolse i rai del suo divin sembiante.
Gravi di Marte i bellici pianeti
Ti furo, e quei che della falce è armato;
Astri presaghi sol d'angoscie e fleti.
anco la luce del natal sciaurato
Fu turpe e cupa, onde al tuo ciglio desto
Solo s'offrisse un lugubre apparato.
Fu il dì, cui d'Allia il margine funesto
diè il nome, il dì, che publico veleno
si sparse d'Ibis dal natale infesto
D'una baldracca dal venale seno
Questi schizzato, colla carne impura
Fe' peso vil de' Cinifi al terreno.
Fermossi il gufo in sulle opposte mura,
E sciolse al raggio di falcata luna
Un rauco suon dal sen di sepoltura.
Là dove Stige i cavi flutti aduna
Le Furie allor con alva paludosa
Lavar le membra colla destra bruna;
D'angue infernal con tabe velenosa
Gli unsero il petto, e per tre volte unite
Batterono la palma sanguinosa:
Fero al bambin le fauci inumidite
D'acre latte canin, esca primiera
Di cui le infanti fur labbia nutrite:
Della sua balia ei succhiò la fera
Rabbie con quello, onde mastin s'aggira
Latrando ognor per la cittade intera.
Strinsero poscia quella carne dura
Fra panni tinti di color ferrigno,
Tolti d'un triste alla deserta pira.
E il molle capo, di tal sorte digno,
Perché non s'appoggiasse nudo ai dumi,
Il collocar su ruvido macigno.
E già presso a partire, al labbro, e ai lumi
Faci appressar di stipe virescenti
Quelle ministre d'Avernali Numi.
Piangea, qual bimbo suol, pei male olenti
Vapor, cui tranguggiò, quand'una intanto
Delle tre suore sciolse tali accenti:
Noi ti imprechiam perpetuo questo pianto,
Il qual dovrà pel tuo sembiante infame
Cadere atroce, meritato, e tanto.
Si disse; e Cloto le enunciate brame
Ratificò, e colle man fatali
Gli eventi ne tessè con negro stame
E i molti per non dir funesti mali
Dell'oroscopo tuo, soggiunse: un vate
I tuoi destini canterà ferali,
Quel vate io son: da me le sciagurate
Ulceri apprenderai, purché gli Dei
Del mio pregar sentan dal ciel pietate.
L'esito al pondo de' presagi miei
Fedel s'accopii sì, che l'alma fessa
Veri il provi in modi acerbi, e rei.
E onde seguir colla sua morte istessa
Di prisca età gli esempli, abbia in te sede
Quell'almo affanno, che fe' Troia oppressa.
E piaga t'anga velenosa il piede
Di quella al par, cui lunga etade increbbe
Del clavigero Alcide al Peanzio erede.
Né men ti dolga di colui, che bebbe
Di cerva al seno, e armato riportò
Plaghe, ed inerme la salvezza riebbe.
O chi sui campi Alei precitò
Del corridore, a cui suo lusinghiero
Sembiante ahi! quasi danno accagionò.
E vedi sol quanto il Fenicio austero,
E sul baston curvato, orbo di luce,
Rutica ognor pel trepido sentiero.
Né scorgi più di lui, cui già fu duce
La nata sua fedel, da' suoi reperto
Incestuoso, e parricida ahi! truce.
Non più del veglio sì famoso, e esperto
Di Febo in l'arte, quando ebbe la rea
Giovial sentenza ahi misero! proferto.
E qual fu quei, per cui si concedea
Fida colomba all'agile naviglio;
Che ricovrava la Trittonia Dea;
O chi fu privo del mal cauto ciglio
Avido d'or, cui diede al Dio Supremo
L'orbata madre in espiazion del figlio.
Come il pastor dell'Etna, a cui Telèmo
Nato d'Eurimo, il denso vel dischiuse
D'un avvenire miserando estremo.
Qual Crabe, e Oarlo, a cui le ciglia chiuse
Chi lor le aprìo; qual Demodoco, o il vano,
Che osò nel canto disfidar le Muse:
Così recida una robusta mano
I membri a te, come Saturno quelli
Onde traeva un dì l'esser umano:
E di Nettuno fiano a te rubelli
I vasti flutti, come a chi mutarsi
Moglie, e germano in repentini augelli;
O al cauto eroe, che i fianchi lacerarsi
Vide, infelice! al bersagliato pino,
Ed abbracciato ad un dei legni sparsi,
Util destò pietade all'Alma d'Ino.